“The Gilded Age” la serie tv che sembra scritta da Edith Wharton
Dal 21 marzo on demand su Sky e in streaming su Now Tv, “The Gilded Age” nuova serie televisiva firmata Julian Fellowes, che con “Gosford Park” di Robert Altman prima e con la serie di culto “Downton Abbey” poi è diventato il re dei period drama di qualità. Qui il riferimento letterario ai romanzi più celebri di Edith Wharton è già nel titolo. Competere con la scrittura della Wharton è ovviamente impossibile, ma le figure, i conflitti, le feroci dinamiche di competizione e di esclusione nella New York di fine Ottocento in cui le nuove, immense ricchezze stanno scalzando i vecchi equilibri sono gli stessi. Come ne “La Casa della Gioia” …
Il riferimento è già trasparente nel titolo, The Gilded Age, l’età dorata: c’è la stessa amara ironia che ispira i titoli dei romanzi più celebri di Edith Wharton, L’Età dell’Innocenza e La Casa della Gioia.
C’è lo stesso universo della New York ricca e spietata di fine ‘800 nella nuova serie HBO che approda on demand su Sky e in streaming su Now il 21 marzo, firmata da quel Julian Fellowes che con Gosford Park di Robert Altman prima e con la serie di culto Downton Abbey poi è diventato il re dei period drama di qualità su grande e piccolo schermo. Tappe minori del suo percorso televisivo sono The English Game e Belgravia: di tutte, forse, quest’ultima miniserie del 2020 è stata la più frettolosa e scontata.
Il barone Kitchener-Fellowes, cantore premiato con l’Oscar di un’aristocrazia britannica che conosce di prima mano, questa volta attraversa l’Oceano per misurarsi con l’upper class newyorchese del 1882. Da sceneggiatore di razza, ha scelto la migliore fonte di ispirazione possibile: la Wharton, in particolare, de La Casa della Gioia, che mette a fuoco la scalata sociale dei nuovi potenti dell’industria e del commercio e il declino orgoglioso della vecchia aristocrazia. Aristocrazia, per la buona società americana dell’East Coast, significava semplicemente poter vantare una discendenza diretta dagli inglesi esuli della leggendaria Mayflower: un paio di secoli di storia in una società senza storia.
Competere con la scrittura di Wharton è ovviamente impossibile, ma le figure, i conflitti, le feroci dinamiche di competizione e di esclusione negli anni in cui le nuove, immense ricchezze stanno scalzando i vecchi equilibri sono gli stessi. L’eroina di The Gilded Age non vive la parabola tragica di Lily Bart nel primo ‘900 raccontata dalla scrittrice: materia troppo cruda per una serie popolare.
Marian Brook (Louisa Jacobson) approda ai quartieri alti della Big Apple dalla nativa Pennsylvania perché il padre, morendo, l’ha lasciata in miseria, e può contare solo sulle zie Agnes (Christine Baranski) e Ada (Cynthia Nixon), che non ha mai conosciuto. Tra le lussuose magioni della 61° strada sta per esplodere una guerra senza esclusione di colpi, perché uno squalo dell’industria ferroviaria e la sua ambiziosa consorte passeranno, metaforicamente, su infiniti cadaveri per affermare la nuova supremazia del dollaro.
Come in ogni lavoro di Fellowes, lo sdoppiamento tra il “piano alto” dei proprietari e il “piano basso” della servitù è capitale. Al tavolo della servitù, non a caso, consuma i suoi pasti Peggy Scott (Denée Benton), la giovane afroamericana aspirante scrittrice che Marian ha fatto accogliere in casa come segretaria della zia.
Fellowes paga visibilmente dazio ai nuovi protocolli della serialità, includendo le minoranze ormai imprescindibili: a rappresentare la minoranza LGBT provvede il cugino gay dell’eroina, figlio dell’intransigente Agnes.
Non sto a declinare i pedigree dei singoli attori, ma sono tutti autorevoli candidati o vincitori di premi Emmy, alcuni notissimi come la Christine Baranski di The Good Wife e la Cynthia Nixon di Sex and the City. E incontestabilmente le figure femminili oscurano quelle maschili, impegnate come sono in machiavellici espedienti per creare o distruggere fortune mondane, per difendere uno status insidiato o per crearsene uno dal niente.
Meno corale di Downton Abbey e meno denso di sottostorie, The Gilded Age ha dalla sua una speciale ricerca sui costumi, che rispecchiano il carattere e la natura dei personaggi: le toilettes della rampante neo-ricca Bertha Russell (Carrie Coon, odiosa e arrogante al punto giusto) sono un piccolo capolavoro di psicologia applicata.
Nell’attesa, ripassare La Casa della Gioia (The House of Mirth in originale) o regalarsi il piacere di scoprirlo, non sarebbe una cattiva idea. La convivenza con questa nuova epopea targata Fellowes, infatti, non sarà breve: è già stata annunciata una seconda stagione.
Teresa Marchesi
Giornalista, critica cinematografica e regista. Ha seguito per 27 anni come Inviato Speciale i grandi eventi di cinema e musica per il Tg3 Rai. Come regista ha diretto due documentari, "Effedià- Sulla mia cattiva strada", su Fabrizio De André, premiato con un Nastro d'Argento speciale e "Pivano Blues", su Fernanda Pivano, presentato in selezione ufficiale alla Mostra di Venezia e premiato come miglior film dalla Giuria del Biografilm Festival.
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