In un fiore dell’Amazzonia la memoria del mondo
In sala dal 4 agosto per Movies Inspired, “El abrazo de la serpiente” del giovane regista colombiano Ciro Guerra, candidato all’Oscar 2016. Un viaggio onirico nel cuore dell’Amazzonia, a partire dai diari dell’etnologo tedesco Theodor Koch-Grunberg e del del botanico americano Richard Evans Schultes. Ma tutto dalla parte degli indios e in un sontuoso bianco e nero che ricorda il miglior Salgado…
“Non puoi impedirgli di imparare.
La conoscenza appartiene a tutti, ma tu non lo capisci perché sei solo un bianco”.
(Karamakate)
C’è un luogo nel grande universo della foresta amazzonica, ché definirla solo foresta sarebbe certamente riduttivo, che non può essere identificato o misurato con parametri geografici. È un luogo che si sottrae a tutte le definizioni rassicuranti della scienza e della logica corrente. È un insieme di simboli, di rituali, di topos immaginari e perciò ancora più veri, di magie e di misteri che formano la coscienza stessa della foresta.
È l’insieme delle anime profonde delle singole civiltà che popolano l’ecosistema più vasto del pianeta. Questo immenso giacimento culturale non è mai stato studiato dai bianchi, che si limitarono ad indagarne solo gli aspetti più superficiali, quelli che potevano produrre denaro: la biologia della foresta.
Ancora oggi se parliamo di Amazzonia pensiamo a piante, animali, clima, mai o quasi mai ai popoli che la abitano e la rendono filosoficamente viva.
Ciro Guerra col suo film, El abrazo de la serpiente, si immerge totalmente in quell’universo metafisico in gran parte perduto, seguendo il filo dei diari dell’etnologo tedesco Theodor Koch-Grunberg (interpretato da Jan Bijvoet), e del botanico americano Richard Evans Schultes (Brionne Davis). La storia però accantona la visione degli esploratori bianchi, alla quale siamo fin troppo abituati, e viene abilmente condotta secondo il punto di vista degli indios attivamente coinvolti durante le sette settimane di riprese nel profondo della foresta. Il risultato è un film di grande intensità, libero da ogni retorica del “buon selvaggio”, fotografato in un sontuoso bianco e nero che ricorda il miglior Salgado.
Theo incontra Karamakate (interpretato da uno statuario Nilbio Torres: un indio che parla poco lo spagnolo), uno sciamano considerato molto saggio che vive in solitudine nel cuore della selva. Lui conosce i segreti della foresta e soprattutto la Yakruna, una pianta sacra dotata di poteri straordinari. Theo è malato e chiede di essere curato con il fiore sacro della Yakruna, dopo qualche riluttanza Karamakate, convinto di poter ritrovare qualche sopravvissuto del suo popolo sterminato dai signori del caucciù, accetta di partire alla ricerca del fiore ma non prima che Theo accetti di rispettare gli stringenti divieti imposti dalla legge del suo popolo.
Con un salto temporale di qualche decennio il botanico Evan, seguendo i diari di Theo, incontra l’ormai vecchio Karamakate (Antonio Bolivar Salvador – Tafillama, uno dei pochi sopravvissuti del popolo degli Ocaina). Il vecchio è diventato un chullachaqui: l’involucro di un essere umano, vuoto di ricordi e di emozioni; un simulacro di ciò che fu il grande sapiente. Dunque anche Evan convince l’anziano Karamakate a intraprendere il viaggio alla ricerca del fiore sacro e della memoria perduta dello sciamano.
I due viaggi si incrociano in continui salti di tempo. Per gli Indios il tempo non è una linea retta: le varie dimensioni temporali convivono parallelamente. Lo scenario umano nel quale i protagonisti della vicenda si muovono, siamo nei primi anni del 900, è profondamente segnato dalla guerra del caucciù. Una guerra mai visibile direttamente ma percepibile nei suoi effetti atroci ed infernali: un indio col corpo mutilato dalla tortura, un monaco sadico, un bianco che si crede il messia e aspetta i re magi, fughe precipitose sull’eco di spari sempre più vicini.
Il viaggio è un ritorno all’origine del mondo, il nostoi di un’odissea amazzonica attraverso il labirinto dei sogni e del tempo. Non si può comprendere il mondo se non sognando, e il fiume è esso stesso la narrazione onirica che però non condurrà a quel “cuore di tenebra” di cui Kurtz è l’inquietante emblema occidentale, bensì alla consapevolezza di un’esistenza che è niente senza memoria, è vana senza il legame profondo con la terra: “la grande anaconda”.
“Dove sono finiti i canti che le madri cantarono ai loro bambini? Dove sono le storie dei più anziani, i sospiri d’amore, i racconti delle battaglie? Dove sono finiti?”. Così il vecchio Karamakate canta l’angoscia di essere l’ultimo del suo popolo. L’ultimo a conoscere segreti che non potrà svelare più a nessuno. Ciò che è perduto è perduto per sempre.
(El abrazo de la serpiente è distribuito da Movies Inspired nei seguenti cinema. A Roma: Lux, Giulio Cesare, Madison. A Torino: Classico, Due giardini. A Milano: Apollo. A Mantova: Mignon. A Bergamo: Capitol. A Udine: Visionario. A Trieste: Fellini)
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