Coetzee, Buzzati, Kavafis. Troppi giganti (letterari) nel deserto (hollywoodiano) di Ciro Guerra

In sala dal 24 settembre (per Iervolino Enterntainment), “Waiting for the barbarians” del colombiano Ciro Guerra, dall’omonimo romanzo del sudafricano J. M. Coetzee (qui anche sceneggiatore). Lento ai limiti della noia, il film mette in scena l’eterno gioco del razzismo e del potere tra riferimenti letterari giganteschi (Coetzee, Buzzati, Kavafis) e un cast hollywoodiano un po’ troppo ingombrante …

Prendere un libro e trasferirlo sullo schermo è un passo che richiede molta attenzione. Il ghiaccio è sottile a causa del continuo confronto con l’opera letteraria.

Se poi il libro è, a sua volta, ispirato pesantemente ad un altro capolavoro letterario l’affare si complica di gran lunga. Dettaglio non secondario: l’autore del romanzo è direttamente coinvolto nella sceneggiatura. Tutto questo per dire che con Waiting for the barbarians, il regista colombiano Ciro Guerra (nomination all’Oscar 2016 per L’abbraccio del serpente), le rogne sembra se le sia proprio andate a cercare. Caparbiamente.

Il suo film, passato l’anno scorso a Venezia e tratto dall’omonimo romanzo del 1980 del sudafricano J. M. Coetzee, Nobel per la letteratura nel 2003 e qui anche sceneggiatore, è quella che potremmo definire una favola distopica. La terra dove tutto si svolge potrebbe essere un paese maghrebino come una lontana provincia asiatica, in che epoca? Fine ‘800 inizi ‘900 sembrerebbe, ma siamo in una favola e il tempo non importa. Come nei racconti di Kafka, i personaggi per lo più non hanno nome.

Il protagonista qui è il Magistrato, uomo mite a capo di un avamposto desertico in un territorio che l’Impero ha conquistato ma poi sembra aver dimenticato. Mark Rylance (interprete magnifico, Oscar come attore non protagonista nel 2015 per Il ponte delle spie di Spielberg, prestissimo lo vedremo nel Processo ai Chicago 7 di Aaron Sorkin) ce la mette tutta per dare credibilità al suo uomo di potere che di notte studia la lingua del popolo che ha sottomesso e regna sulla piccola sperduta colonia con la gentilezza.

Può un uomo così, durare a lungo in cima al potere? Ovviamente no, e infatti ecco che un giorno sbarca da una carrozza il colonnello Joll, convinto che la tortura sia l’unico modo per scoprire se è vero che le tribù “barbare” del deserto stanno preparando un’invasione.

Divisa blu, occhiali scuri tondi per nascondere ogni possibile emozione, Joll (in afrikaans significa “giocare o divertirsi”, per sottolineare che il peggior tipo di torturatore è qualcuno il cui lavoro è anche il suo piacere) è una specie di caricatura con il volto e gli zigomi di Johnny Depp, a cui spetta di rappresentare la stupidità e l’ottusità del potere.

Guerra, abituato a lavorare in Colombia dove si tira la cinghia su attori e palanche, qui è per la prima volta alle prese con la lingua inglse e un cast stellare hollywoodiano, che sembrano non metterlo esattamente a suo agio.

Johnny Depp è un fumettone; Mark Rylance è quasi irritante nel guardare con perenne stupore la violenza del potere, nel vivere già sconfitto il suo amore per una giovane barbara torturata; Greta Scacchi è messa lì quasi per caso nei panni di una stropicciata governante, Mai (pronunciato diventa “Ma”, linguaggio quasi universale per “madre” ed è, infatti, la figura materna del romanzo); il culmine è l’arrivo in scena di Robert Pattinson, che fa il cattivo per un quarto d’ora e poi scompare.

Su Guerra aleggia in modo esplicito il fantasma del Deserto dei tartari girato da Valerio Zurlini nel 1976, così come del resto Coetzee si deve confrontare con l’omonimo romanzo di Dino Buzzati, pur avendo da tempo messo le mani avanti con un sottile distinguo: il suo libro usa la metafora per parlare di apartheid mentre Buzzati, nel 1940, parlava dell’imminente catastrofe, la Seconda Guerra Mondiale.

In questo gioco di scatole cinesi l’elefante che si aggira in mezzo a tutti loro è il poema scritto da Costantino Kavafis nel 1898 ad Alessandria d’Egitto, forse il suo lavoro più celebre. “Cosa aspettiamo raccolti nella piazza? Oggi arrivano i barbari. Perché mai tanta inerzia nel Senato? E perché i senatori siedono e non fanno leggi? Oggi arrivano i barbari”. Con Aspettando i barbari il poeta greco alessandrino raccontava la decadenza dell’impero greco-romano ormai privo di forze e di progetti, che aspetta di essere invaso dalla vitalità essenziale dei barbari, in cerca di territori nuovi da conquistare per sfuggire alle carestie.

Nel film di Guerra il messaggio si banalizza: i barbari siamo noi, che usiamo il razzismo per controllare ciò che non conosciamo. La sacralità del romanzo diventa lentezza esasperante; non quella della Fortezza Bastiani sospesa nel vuoto metafisico della sua attesa, ma proprio lentezza d’azione e pensiero che in certi momenti diventa inevitabilmente noia. E a poco serve la magistrale fotografia di Chris Menges.

Dal libro di Coetzee anche Philip Glass, maestro del minimalismo musicale, aveva composto un’opera in due atti, su libretto di Christopher Hampton. L’opera è stata commissionata dal Theater Erfurt a Erfurt, in Germania ed è andata in scena il 10 settembre 2005. “Normalmente non approveremmo mai la tortura, ma penso che sia ampiamente compreso che si tratta di un’emergenza” era il pensiero agghiacciante e minaccioso, cantato dal colonnello Joll nell’opera di Glass. Il quale, parlando di come ha inteso l’opera in riferimento al libro, aveva spiegato di aver spostato lo sguardo dall’apartheid alla guerra in Iraq.

Alla prima, nel 2005, le torture di Abu Ghraib erano ancora fresche nella memoria. E anche lì, si era poi scoperto che non c’era nessuna invasione barbarica pianificata, nessuna pistola fumante per giustificare la Guerra del Golfo. La storia si ripete; e i barbari alla fine sono arrivati.