Vent’anni di solitudine. Dalla Colombia, “Oro verde”, il film che ti incanta

In sala dall’11 aprile (per Academy Two), “Oro verde. C’era una volta in Colombia” di Cristina Gallego e Ciro Guerra. Un’opera visionaria e politica, epica e poetica. La saga familiare di un clan indigeno wayuu che si lascia travolgere dal narcotraffico della marijuana negli anni Settanta e Ottanta. Personaggi che sembrano essere usciti dai racconti di Gabriel Garcia Marquez. Da non perdere assolutamente …

Se Gabriel Garcia Marquez si fosse trovato a raccontare la storia di Escobar (oltre a quanto già testimoniato in Notizia di un sequestro) siamo certi che l’avrebbe fatto così. Attingendo a quel mondo tutto suo dove poesia, realtà e tradizione popolare si fanno succo di piccoli incanti narrativi, ondeggianti al vento del deserto de La Guajira.

C’è tanto Gabo, infatti, in Oro verde. C’era una volta in Colombia, l’ultima opera di Ciro Guerra, stavolta affiancato alla regia dalla sua produttrice, Cristina Gallego, con la quale ha già condiviso le glorie internazionali de El abrazo de la serpiente, altra folgorante incursione in quell’immenso giacimento culturale che sono le civiltà indie dell’Amazzonia.

A riprova di quanto il cinema latino americano sia al momento il più creativo ed originale dell’Occidente, la coppia di artisti colombiani firma un film del tutto fuori dalle convenzioni, capace di trasformare una storia di narcos, anzi La storia dell’origine del narcotraffico divenuta addirittura un genere (non si contano più neanche le serie sul tema), in un racconto epico e poetico, tenuto in piedi dalla saga di una famiglia indigena wayuu.

Un clan orgoglioso delle sue tradizioni di pastori nomadi, una società matriarcale dove le donne gestiscono gli affari della comunità, dove i vivi e i morti sono in costante dialogo attraverso i sogni e, la natura, è coprotagonista dell’agire umano. Finché il boom del commercio della marajuana con gli yankees, però, non travolgerà ogni cosa.

Di quei “vent’anni di solitudine” della famiglia di Ursula (una straordinaria Carmina Martinez), infatti, ci racconta Oro verde. Quel ventennio, ’70 e ’80, in cui la “marimba” diede il via al narcotraffico. Ma anche alla sfrenata cupidigia e all’inevitabile guerra fratricida, accompagnata dai desideri di vendetta radicati nelle culture tribali e non solo.

Fedele alla sua identità di “cantastorie delle civiltà primitive” Ciro Guerra inscena un racconto suddiviso per canti, quasi interamente parlato in lingua wayuu e dalla fotografia folgorante, dove la ganster story s’intreccia alla tragedia classica e i personaggi diventano archetipi: la madre, il genero, la figlia, lo zio. Archetipi di un’umanità vittima della propria cupidigia e del proprio desiderio di vendetta.

“La violenza ha ucciso la parola. Non era mai successo”, dice il vecchio portavoce del clan, consegnando il messaggio al nostro presente. E confermando l’orgogliosa identità politica del cinema di Guerra. “Quello che rappresentiamo è la faccia vera del capitalismo allo stato puro” ci tiene, infatti, a sottolineare il regista che è già al lavoro su Waiting for the Barbarians, dall’omonimo romanzo del sudafricano J.M. Coetzee. Con Johnny Depp e Robert Pattinson, sarà un nuovo tassello del suo coerente percorso artistico in difesa dell’aterità.