Il Vangelo di Marco che sembra un film di Leone. Nel monologo di Veronesi

In onda il 24 dicembre su Rai5 (ore 16.30) Non dirlo. Il vangelo di Marco, monologo di Sandro Veronesi dal suo omonimo romanzo. Un ironico e affascinato tour tra le strade di Galilea e le barche di Tiberiade, i paralitici e le emorroisse, la misteriosità del Cristo e la stolidità degli apostoli. Lo spettacolo sarà in tournée a Modena il prossimo febbraio e a Prato in  marzo…

sandro-veronesi-gesu-1050x699

 

Duemila anni e non smettono di intrigare, affascinare, coinvolgere. Venti secoli di esegesi, comparazioni, ipotesi e più si fruga e più si trova, non importa se lo sguardo è prospettico e panoramico oppure viscerale, olistico oppure anatomico: i Vangeli continuano ad esercitare la loro fascinazione, ad attrarre scrittori e artisti, ad illuminare il cammino di chi sulla fede s’interroga e si declina o chi, semplicemente, vuole leggere ancora una volta di un uomo che ha sconvolto il mondo intero chiedendoci di perdonare, di amare e di porgere l’altra guancia.

Ma non sarà che invece è tutto merito della loro potenza narrativa, dei protagonisti, della  lotta eterna tra buoni e cattivi, della struttura e del plot come pure delle sospensioni?  “Nel Nuovo Testamento, che si può considerare un prodigioso bestseller, c’è un’efficace intuizione su come si deve raccontare una storia” sostiene infatti Emmanuel Carrère, che al Vangelo di Luca e alla Chiesa dei primi secoli promossa da Paolo ha dedicato uno dei suoi libri più venduti e amati, Il Regno (Adelphi, 2015).

E Sandro Veronesi, autore sempre nel 2015 per Bompiani di Non dirlo. Il vangelo di Marco, rilancia: “Sono rimasto affascinato dalla qualità dell’azione e della narrazione. Questo Vangelo è come un film di Sergio Leone, con punte alla Tarantino e un finale da film horror. Per non dire della modernità di Cristo, un uomo d’azione che deve riscattare gli uomini dal peccato originale, un eroe solitario che parla per immagini, catalizza le folle e poi le sfugge”.

Il “Non dirlo” che ha dato il titolo al libro è infatti la frase che Cristo pronuncia dopo ogni guarigione, l’ordine che fa seguire ad ogni miracolo, per Veronesi “la chiave di segreto di personalità che costituisce la trama della sua vita sulla terra”. Ma Non dirlo era nato subito anche come progetto artistico multimediale: prodotto dal Teatro Stabile della Toscana, lo spettacolo del monologo dello stesso Veronesi del Vangelo di Marco (aveva debuttato al Festival dei Due Mondi di Spoleto e sarà ancora in tournée a Modena il prossimo febbraio e a Prato in  marzo) è andato in onda qualche sera fa su Rai5 nella versione filmata prodotta dalla Fandango e sullo stesso canale sarà replicato spesso in questi giorni natalizi: se dunque avete un’oretta e mezza da dedicare a questo breve, intenso viaggio nel più breve dei Vangeli, non perdete l’occasione, ne vale la pena.

Veronesi ha cominciato ad interessarsi al Vangelo di Marco nel 1996, quando Giovanni Paolo II ne distribuì una copia ad ogni romano come preparazione al Giubileo del 2000. Un incontro casuale che ha innescato la voglia di scandagliare quel racconto, di capirne le intenzioni, di intravedere, da scrittore, le strategie narrative dell’autore.  Fino a voler assumere su di sé la dimensione orale così fondamentale nella parabola del Cristo, per condividere il piacere della ricerca filologica, delle scoperte narrative e di una intuizione fondamentale.

9788845278747_0_0_1645_80

Meno carismatico del conterraneo Benigni, Veronesi, che è un bravissimo scrittore, da bravo toscano è anche un capace oratore. E convince e avvince nel suo personale, ironico e affascinato tour tra le strade di Galilea e le barche di Tiberiade (“Gesù era un marinaio, è ovvio, dormiva in barca, in solitaria come Giovanni Soldini”), i paralitici e le emorroisse, la misteriosità del Cristo e la stolidità degli apostoli. Che in questo Vangelo, ci spiega, sono particolarmente ottusi perché il vero obiettivo di Marco è tanto grandioso quanto utopistico: convincere e convertire i Romani.

E se dopo tre secoli e mezzo di persecuzioni feroci, il cristianesimo è diventata lo loro – e la nostra – religione il merito è proprio di questo testo, che ha ispirato, sostenuto, e dato forza alla resistenza dei cristiani nei primi secoli di persecuzioni, fino a convertire un imperatore.

Ecco perché non ci sono tante parole (è lungo quasi la metà degli altri tre), ecco perché sono stati deliberatamente esclusi il Discorso della Montagna (troppe beatitudini, troppa fede) e il primo centurione, quello del “«Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto…»: ai Romani, gente ricca, evoluta, che aveva già l’acqua calda in casa, schiavi a volontà e i leoni al guinzaglio sempre pronti a scattare, servivano fatti clamorosi, folle oceaniche tipo quelle dei giochi circensi, gesti forti, come le guarigioni e gli esorcismi che potevano colpire il loro immaginario di gente tanto individualista quanto sbrigativa e materialista, così simili a noi occidentali tutti.

Marco, che vive a Roma e ha come fonte diretta un calibro da novanta come Pietro, per sollecitare la risposta dell’Impero non esita a trattare il capo dei discepoli alla stregua di un povero idiota, sottintendendo che se le obiezioni degli apostoli erano normali, lui chiede ai Romani lo sforzo di andare oltre, di non identificarsi con i dubbi di quei dodici stupidoni.

Rivivono nel palcoscenico assolutamente nudo, parole e gesti che duemila anni dopo sono ancora profondamente incompresi e ostici. Fino al processo, che Marco sceneggia per i Romani con assoluta simpatia per il romano Ponzio Pilato, servendo su un piatto d’argento, a quel popolo potente e presuntuoso, la mistica che aveva ormai smarrito da secoli: quell’uomo (Uomo?) capace di resuscitare i vivi e di guarire ogni male, decide di farsi ammazzare come l’ultimo degli agnelli. Perché?

È in questa assurdità che Marco rinchiude come un genio nella lanterna lo spirito della conversione. Perché? Quale mistero cela, quale pista segreta? Solo lì, sotto la croce, Marco chiede una torsione spirituale al proprio lettore. Quell’affascinante luce che emana da Cristo si manifesta nella caduta, nella morte per crocifissione, quella croce  che è stata poi sussunta da Roma, è diventata il suo simbolo.

“Lavorare sulla religione aiuta a comprendere il mondo contemporaneo”, dice Veronesi. Forse è anche questo ad aver attratto Saramago e Pasolini, Scorsese e Alderman, tra le centinaia di quelli che se ne sono occupati. Forse un motivo lo svela il finale del vangelo di Marco, che nella versione originaria, prima della gloria della Resurrezione, finiva con la parola “paura”. Come a dire, con molta onestà, che il suo racconto su Gesù Cristo finiva con la sparizione dal sepolcro e ora, se vogliamo che la nostra vita cambi, tocca ad ognuno di noi decidere se e cosa fare. Incluso avere paura, perché senza paura non si sono prese quelle parole sul serio.

Possibile, si congeda Veronesi, che “ci sia voluta la morte di un innocente per salvarci dal nulla?”. Possibile che siccome non abbiamo ancora riempito quell’infinito buco nero  continuiamo a ricordare quell’innocente con pranzi, rituali e regali che si chiamano Pasqua e Natale?