“Via col vento” rimosso (temporaneamente) da HBO Max. Battaglia antirazzista (anche) nel cinema che fu (ma come?)
La protesta del movimento Black Lives Matter investe anche i classici del cinema, con la rimozione (temporanea) dalla piattaforma HBO Max di “Via col vento“, uno dei maggiori successi di Hollywood (dal romanzo omonimo di Margaret Mitchell), ma intriso di stereotipi “dalla parte” del Sud schiavista. La decisione (che fa seguito all’appello dello scrittore, regista e sceneggiatore premio Oscar John Ridley) è emblematica di un momento dove la richiesta di cambiamento si traduce anche nell’esigenza di revisione critica della storia culturale: da affrontare con intelligenza e senza (controproducenti) censure e rimozioni, come ci insegna anche Bansky…
Via col vento: cioè, in questo caso, via dal catalogo di HBO Max, col vento di una protesta (antirazzista) di massa che non risparmia i prodotti artistico-culturali del passato. E così il celeberrimo film del 1939 diretto da Victor Fleming (ma in origine affidato a George Cukor), tratto dal romanzo omonimo di Margaret Mitchell e interpretato da Vivien Leigh (nei panni di Rossella O’Hara) e Clark Gable (nel ruolo di Rhett Butler), è stato temporaneamente rimosso dalla neonata piattaforma streaming dell’emittente di Game of Thrones.
Già, perché, come ha dichiarato a Variety un portavoce di HBO Max motivando la scelta, «Via col vento è un prodotto del suo tempo e rappresenta alcuni dei pregiudizi etnici e razziali che purtroppo sono stati all’ordine del giorno nella società americana. Queste rappresentazioni razziste erano sbagliate allora e sono sbagliate oggi». Tanto più al tempo del movimento Black Lives Matter e delle contestazioni (letteralmente) esplose negli USA (e nel mondo) dopo la morte di George Floyd. Perciò ospitare quel film in catalogo senza «una spiegazione e una denuncia di quelle rappresentazioni», prosegue il portavoce, «sarebbe stato irresponsabile».
La rimozione, infatti, non sarà definitiva, e il film verrà reintrodotto accompagnato da un approfondimento che ne focalizzi criticamente il contesto storico e gli stereotipi etnici. Ma, si specifica, mantenendo l’integrità dell’opera, senza censure, tagli o manomissioni, «perché fare altrimenti sarebbe come affermare che questi pregiudizi non sono mai esistiti. Se vogliamo creare un futuro più giusto, equo e inclusivo, dobbiamo per prima cosa conoscere e comprendere la nostra storia».
Parole (e fatti) che vanno nella direzione di quanto auspicato dallo scrittore, regista e sceneggiatore John Ridley (Oscar per lo script di 12 anni schiavo), che in un articolo pubblicato l’8 giugno sul Los Angeles Times aveva chiesto a Warner Media (cui afferisce HBO) di rimuovere provvisoriamente il film, in segno di solidarietà verso le proteste: «Non credo nella censura», scrive Ridley, «Non penso che Via col vento dovrebbe essere relegato in un caveau a Burbank. Chiederei solo che, passato un rispettoso periodo di tempo, il film venisse reintrodotto sulla piattaforma HBO Max insieme ad altri film che restituiscano una visione più completa e contestualizzata di cosa sono state davvero la schiavitù e la Confederazione», o comunque affiancato da contenuti che mettano in discussione visioni frutto della «cultura dominante» del tempo.
Più che un vento, a ben vedere, si preannuncia un terremoto degno del #MeToo nell’industria dell’entertainment a stelle e strisce: già annunciate le cancellazioni degli show Cops (Paramount) e Live PD (A&E), fin troppo “schierati” con la polizia USA. E, per quanto riguarda il cinema che fu, Via col vento è solo la proverbiale punta dell’iceberg. Infatti, se è già emblematico che il maggior incasso della storia del cinema (3,44 miliardi di dollari al netto dell’inflazione), vincitore di otto Oscar nel 1940 (tra cui, ironia, il primo a un’attrice afroamericana, Hattie McDaniel) sia ricordato (anche) per la sua raffigurazione edulcorata e apologetica del sudismo schiavista, la storia del cinema (non solo) americano tutta è intrisa, ahinoi, di stereotipi razzisti.
La Disney, solo qualche mese addietro, si era dovuta porre il problema col lancio (guarda caso) della sua piattaforma streaming, che ha riproposto molti classici amatissimi dell’animazione non proprio all’insegna del politicamente corretto: dai corvi “afroamericani” di Dumbo agli italiani di Lilli e il vagabondo. Optando, principalmente, per l’inserimento, a margine dei titoli “incriminati”, dell’avvertenza: «Potrebbe contenere rappresentazioni culturali ormai superate». Ma che dire, ancora, dei western anti-indiani di una volta, tra cui figurano capolavori come Ombre rosse e Sentieri selvaggi? O di uno dei padri del cinema narrativo come David Wark Griffith, regista di quel Nascita di una nazione dove si inneggia addirittura al Ku Klux Khlan contro i neri cattivi e stupratori delle donne bianche?
Il problema, insomma, è enorme e va affrontato, in un momento storico dove la richiesta troppo a lungo disattesa di un cambiamento sociale esige (anche) una revisione critica della storia culturale (emblematico l’episodio dell’8 giugno a Bristol, con l’abbattimento della statua al trafficante di schiavi Edward Colston). Evitando certamente censure e (quindi) rimozioni perbeniste di quanto è stato, che non farebbero bene né all’arte né alla consapevolezza dei mali passati (e presenti): piuttosto, rafforzando il senso e gli strumenti critici degli (e per gli) spettatori di fronte ad ogni prodotto mediatico. Facendo, per dirla con Benjamin, il contropelo alla Storia, come nella (geniale) provocazione di Bansky, che ha proposto di rimettere la statua di Colson sul suo piedistallo, ma aggiungendo quelle dei manifestanti che lo tirano giù. Comunque la si pensi, francamente, non possiamo infischiarcene.
Emanuele Bucci
Libero scrittore, autore del romanzo "I Peccatori" (2015), divulgatore di cinema, letteratura e altra creatività.
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