Il 1° maggio di Guido Picelli, combattente per la libertà (con tanti aggettivi)

Era il 1° maggio 1924, Mussolini aveva appena soppresso la Festa dei lavoratori, quando Guido Picelli per protesta riuscì a mettere sul pennone del Parlamento la bandiera rossa. A ottant’anni dalla sua morte un libro (ma c’è anche il doc) di Giancarlo Bocchi ricostruisce la vita del dirigente rivoluzionario, comunista, libertario fuori dagli schemi. La cui leggenda cominciò sulle barricate di Parma dove guidò la prima sconfitta militare dei fascisti…

Forse c’è bisogno di aggettivi. Perché quella sua idea di libertà avrebbe  bisogno di essere spiegata, articolata, “messa dentro” la storia che stava vivendo, il periodo più buio del secolo breve. Perché per lui libertà non era solo possibilità di scelta, non era solo l’antitesi del fascismo: era libertà dall’oppressione, tutte le oppressioni, dallo sfruttamento, dalle gerarchie. Libertà dai bisogni. Era libertà oltre le sbarre di un carcere.

Lui è una delle figure più affascinanti dell’antifascismo italiano: Guido Picelli. Morto ottant’anni fa, in Spagna, durante la guerra civile.

Un nome che significa ancora molto nella sua Parma. Un nome, per tanti versi una leggenda, che però rischiava di essere se non banalizzato quantomeno ridotto. Compresso in uno solo degli aspetti della sua vita. Ed è questo forse uno dei più grandi meriti dell’ultimo libro di Giancarlo Bocchi (anche autore del documentario Il ribelle, Guido Picelli un eroe scomodo ). Sì, perché per comodità, chiunque si sia occupato della sua storia, alla fine se n’è uscito con la definizione di “Che Guevara italiano”.

E sicuramente Picelli fu un uomo, un militante “d’azione”, un comandante, un esperto militare. Tanto che la sua leggenda comincia quando aveva solo 33 anni, e guidava gli Arditi del Popolo, di Parma – meglio: dei quartieri popolari di Parma, l’OltreTorrente – a combattere contro le milizie fasciste che volevano occupare tutta la città. Duecento, duecentocinquanta partigiani, contro diecimila squadristi bene armati, comandati da Italo Balbo. E gli Arditi tennero testa per cinque giorni agli assalitori, costringendoli a ritirarsi. La prima sconfitta militare dei fascisti.

O ancora, la sua leggenda si rafforzò quando, il 1° maggio del ’24 (due anni dopo la battaglia di Parma), da deputato eletto, issò la bandiera rossa alla Camera dei Deputati. Per protesta contro la cancellazione della festa del lavoro.

Si potrebbe continuare, in una vita tutta spesa nella battaglia per la democrazia. Ma appunto, si correrebbe il rischio di banalizzarla. Perché Guido Picelli è stato anche un grande intellettuale. La sua immagine completa ce la resituisce proprio Nostra legge la libertà / scritti e documenti di Guido Picelli (Imp libri),  testo di Giancarlo Bocchi, il regista e storico che sulla resistenza a Parma e sulle figure che l’hanno segnata ha speso molte delle sue ricerche.

Ne esce una figura complessa, alta. Ne esce la figura di un dirigente rivoluzionario, comunista, libertario fuori dagli schemi. Capace di dissenso quando fra le fila dei comunisti trionfava la teoria del socialfascismo con cui si etichettavano i socialisti, capace di cogliere il bisogno di unità che aveva imparato nella sua esperienza sul campo.

Ma capace anche di una umanità atipica che raramente ci hanno regalato i dirigenti comunisti dell’epoca. Lui che miracolosamente riuscì a sfuggire a due, tre attentati fascisti, impiegava gran parte del suo tempo a visitare le carceri, per assicurare “i compagni detenuti” che nessuno si era dimenticato di loro.

E in uno dei resoconti delle sue visite inviato alla direzione del Pci (cosa che gli era ancora permessa per la sua qualifica di deputato) c’è un passaggio che racconta molto del suo spessore: in tanti penitenziari ai detenuti politici era permesso di parlare solo con le guardie. Lui volle lo stesso incontrarli. Si guardarono negli occhi e “si dissero molte cose”.

Quelle pagine scritte al Pci – che chissà se qualcuno avrà mai letto – si chiudevano sempre con una frase di speranza: che prima o poi quelle sbarre sarebbero saltate, sarebbero state spezzate.

E ritorna la libertà. La sua idea di libertà. “L’uomo libero, l’eguale di ciascuno, il fratello di tutti”, scrive. Un’ansia, un bisogno di libertà – per sè stesso e per gli altri – che lo porteranno ad entrare in collisione col movimento comunista, il movimento comunista di quegli anni. Non ci fu una rottura palese, dichiarata, pubblica.

C’era però la sua insofferenza allo stalinismo, alla burocrazia. Che pagò con mille umiliazioni durante la sua permanenza in Russia, quando finalmente riuscì ad arrivarci dopo l’esilio a Parigi. E che forse pagò in maniera ancora più drammatica quando riuscì a farsi spedire in Spagna, durante la guerra civile e a tornare alla guida dei suoi vecchi Arditi.

Anche qui riuscì nell’impresa di infliggere le prime sconfitte ai nazifascisti. Ma il Comintern, l’Internazionale comunista – che non si fidava di lui – gli aveva messo un suo uomo alle spalle. Per controllarlo. E proprio alle spalle Guido Picelli fu colpito una mattina di gennaio, mentre stava guidando l’assalto ad una roccaforte franchista. Non si è mai saputo chi lo colpì.
La sua idea di libertà forse aveva troppi aggettivi per quegli anni.