Arriva Jeeg Robot, la sorpresa di quest’anno!
È un po’ Tarantino e un po’ Caligari (“Non essere cattivo”). Ma il totale, nel caso di Gabriele Mainetti, è più della somma delle sue parti. E così “Lo chiamavano Jeeg Robot” (nelle sale dal 25 febbraio) getta le basi per nuovo cinema italiano che, forse, riparte da qui…
Il primo maglio perforante l’aveva lanciato alla Festa del Cinema di Roma dove l’anteprima aveva entusiasmato il pubblico. Ora si preannuncia il botto in tutta Italia con qualche centinaio di copie, distribuite da Lucky Red, che valgono più di raggi protonici, bazooka spaziali e scudi rotanti, armamentario del robottone eroe dei celebri cartoon televisivi. Producono la Goon Films (dello stesso Mainetti) e Rai Cinema.
Il titolo sposa – come sottolinea Nicola Guaglianone, sceneggiatore con Menotti – immaginari distanti: magari quello di un certo cinema italiano (Lo chiamavano Trinità) e quello dei cartoon giapponesi (Jeeg Robot). Proprio quel Jeeg robot d’acciaio, prima manga (fumetto) e poi anime (cartoon) creato negli anni Settanta, su disegni di Tatsuya Yasuda, da Go Nagai, il papà di un’intera dinastia di supercreature meccaniche: da Mazinga a Ufo Robot. In occasione dell’uscita del film la casa editrice J-Pop ripubblica un cofanetto con le avventure di Jeeg Robot. E ancora un fumetto, ispirato direttamente al film, firmato da Roberto Recchioni, Giorgio Pontrelli e Stefano Simeone sarà venduto in allegato a La Gazzetta dello Sport con quattro diverse copertine firmate dallo stesso Recchioni, da Zerocalcare, Leo Ortolani e Giacomo Bevilacqua.
Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) è un delinquentello romano che vive di piccoli furti e aspetta che venga il suo turno di morire. Consuma le sue giornate ingurgitando budini alla vaniglia di pessima qualità e sparandosi video porno. E compiendo scippi. Gli è «fatale» l’ultimo – che vediamo all’inizio in una sequenza girata benissimo che vale già mezzo film – quando, inseguito dai poliziotti, si salva buttandosi nel Tevere. Che come sanno tutti è pestilenziale, peggio della palude di The Swamp Thing o i barili di The Toxic Avenger (il fumetto della DC Comics e il film della Troma, altre due fonti d’ispirazione più o meno esplicite), tanto che il nostro, contaminato dai rifiuti tossici, ne uscirà trasformato: in peggio o in meglio si vedrà.
Forte di superpoteri che lo rendono invulnerabile pensa di cavarsela e godersi la vita svaligiando, anzi sradicando, uno sportello del Bancomat. Ma il video che ritrae l’impresa diventerà, come si dice in tempi di social media, virale. Così Enzo, diventato suo malgrado un supereroe con superproblemi (o un supercriminale come lo dipingono i media), deve calarsi nel ruolo e rivestirlo fino in fondo. Lo spingono giù (o su?) per la china il cattivo di turno, lo Zingaro (Luca Marinelli), un villain che sembra il Joker, e Alessia (Ilenia Pastorelli) una disagiata ragazza che vive nel mito dei cartoon della serie Jeeg Robot e che scambia Enzo per una sorta d’incarnazione dell’eroe d’acciaio.
Lo Zingaro, che dapprima tenta di utilizzare la forza di Enzo-Jeeg per mettere a segno rapine milionarie, diventerà poi il suo feroce avversario scatenandogli contro la sua banda di psicopatici balordi. Il finale, come si conviene nelle storie dei supereroi, è un duello all’ultimo sangue: non tra i grattacieli di Gotham City ma sullo sfondo dello stadio Olimpico che lo Zingaro vorrebbe fare saltare in aria. Chi vincerà? La risposta cercatela nel film che riserva anche un’altra sorpresa.
Il cast è sorprendente: Claudio Santamaria, che per calarsi nel physique du rôle è ingrassato di venti chili, disegna alla perfezione un catatonico borgataro indeciso tra il male e il bene; Claudio Marinelli (che riprende toni e tic del Cesare di Non essere cattivo, ma ci aggiunge una buona dose di follia) è fantastico nell’interpretare un feroce boss, tanto violento quanto arruffone, ossessionato dal raggiungere il successo (nel male) e segnato per sempre dal quarto d’ora di celebrità televisiva vissuto in gioventù con una comparsata a Domenica In; Ilenia Pastorelli tratteggia con convincente naturalità un otaku (sono i maniaci dei manga e degli anime giapponesi) al femminile, la cui ossessione ha purtroppo una drammatica origine nelle violenze subite da piccola.
E poi c’è Gabriele Mainetti (esordisce nel lungometraggio dopo apprezzati e premiati corti: Tiger Boy, Basette) che, come si dice a Roma, «se la sona e se la canta»: produttore, regista e anche autore (assieme a Michele Braga) di una suggestiva colonna sonora. Gira bene, guida gli attori al meglio, si avvale di effetti speciali, tanto poco speciali quanto assolutamente convincenti. Filma borgate (Tor Bella Monaca) e centro di Roma senza indulgere a documentarismi e «grandi bellezze», mette insieme efferate scene di violenza (lo Zingaro che fracassa a colpi di telefonino la testa a un suo scagnozzo è raccapricciante), intermezzi grotteschi e battute in romanaccio. Regista, insomma, ottimo regista che promette bene. E anche di più.
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