“Napoli ’44”, il capolavoro che ha reso scrittore l’ufficiale Lewis

Un libro storico, oramai, nato dalla penna del giovane militare inglese aggregato alla Quinta Armata, alla base dell’omonimo film di Francesco Patierno in sala dal 15 dicembre. Il ritratto del “cadavere ambulante” di una città dopo l’orrore della guerra, dove le miserie coinvolgono tutti, italiani ed alleati, ma dove c’è anche spazio per lo spirito da farsa alla Scarpetta, De Filippo, Totò…

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La cronaca di una città morente. Che c’è dopo l’orrore di ogni guerra? Solo altro, infinito orrore. Per capire, comprendere e soffrire con chi delle storie raccontate è stato il vero protagonista basta leggere Napoli ’44, di Norman Lewis.

In tanti hanno definito questo libro, diario, reportage, strumento d’analisi sociologica, un “capolavoro”, ed indubbiamente Napoli ’44 lo è.

Tra i pochi inglesi aggregatati alla Quinta Armata, distaccato a Napoli come ufficiale del servizio di sicurezza, dalla sua postazione Lewis osserva ogni cosa, ogni minuzia, i paesaggi, le facce dei soldati e quelle degli italiani, i bombardamenti dei tedeschi in ritirata, le incursioni alleate e soprattutto il “cadavere ambulante” di una città, dell’immensa città di Napoli, entro la quale le persone si muovono come zombi, senza una meta, ma solo il desiderio di salvare la propria pelle, e quella dei propri cari. Senza più scrupoli, senza lasciare niente di intentato.

Sul diario di Lewis vengono riversate emozioni quasi in presa diretta, con una straordinaria forza descrittiva. Sembra così anche a noi di esserci in questa città nella quale ogni riferimento, non diciamo “etico”, ma per certo di dignità degli uomini e delle donne sembra ormai essere del tutto svanito.

La scrittura comincia come quella di un qualsiasi viaggiatore che annoti dettagli seduto al bar di una qualunque città, anche ai nostri giorni. Poi, e qui è la grandezza di Lewis, gli appunti divengono palpiti, la cronaca diviene coinvolgimento, le considerazioni sociali lasciano scaturire quella vicinanza, nonostante gli orrori, quelle malversazioni descritte, che ci rendono care queste pagine.

Gli orrori e le miserie coinvolgono tutti, gli italiani ed anche l’esercito alleato, in una città senza acqua, senza corrente elettrica, senza cibo. Un ufficiale inglese che tortura, con formale eleganza, un civile, un collaborazionista, forse, fino a provocarne la morte: “Le spiacerebbe portar via quest’uomo, e farlo fuori?”.

napoli44

Un drappello “fantasma” di soldati tedeschi che continua la sua fuga e la sua folle guerra nell’immenso reticolo delle catacombe napoletane. La ricerca spasmodica, in questa città liberata e sempre affamata, di cibo, che va di pari passo con la ricerca del sesso. Le giovani ragazze del popolo che si concedono agli americani per una scatola di fagioli, per avere qualcosa da mangiare. Altre, più ambiziose, che vogliono farsi sposare dai liberatori e lasciarsi così tutta quella miseria alle spalle. Le soffiate raccolte da napoletani che si accusano gli uni con gli altri di collaborazionismo.

La Napoli a nord di Napoli, Casoria, Afragola, Aversa, Acerra, i cui comuni attraverso nuovi sindaci vengono affidati dagli americani direttamente a persone suggerite da camorristi e gangsters, in grado comunque di controllare il territorio. La corruzione della borsa nera, ed anche quella dei carabinieri e dei soldati americani; in combutta con borsaneristi, con camorristi. Su tutto impera il malaffare. L’idea che, per i più furbi, per chi ha meno scrupoli, o non ne ha per nulla la guerra possa essere l’occasione di arricchire.

E, nonostante tutto, questa città che lentamente risorge. Sorge. Forse “impiantata” su mali atavici, forse facendo i conti con il “corredo ereditario” di una umanità sempre pronta a lottare per vivere o soltanto sopravvivere, tralasciando secoli di “coscienza”, di “umanità” nel giro di pochi giorni, in pochi anni o secondi.

La Napoli che sopravvive dannandosi l’anima (ritrovata, assieme alla coscienza di se) sembra uguale ad qualunque città assediata, portata alla fame, massacrata, dalle guerre dei nostri giorni.

I tratti distintivi però ci sono. C’è una certa dose di fatalismo partenopeo e, a barlumi, anche una solidarietà, parentale magari, che affiora. Di gruppo, di rione. Lì si mantiene un argine, tenue, all’abbrutimento definitivo.
E per sicuro l’argine c’è anche in una certa arte di arrangiarsi, in una tenera ironia, nell’attaccamento al fato, nella superstizione, nella religione, nella ricerca della fortuna, che rendono questo popolo indomito.

E allora, insieme agli orrori, nel libro di Lewis troviamo anche gli espedienti, che sanno di farsa di Scarpetta o De Filippo o Totò, ma che sono cultura più che folclore: 25 novembre, tutti i pesci tropicali (poveri loro) dell’Acquario di Napoli, vengono cucinati, in mancanza d’altro, per organizzare il banchetto di benvenuto offerto dalla città al generale Mark Clark.

Oppure la descrizione della figura del filiforme, talmente affamato da essere continuamente sul punto di svenire, Latturulo, già avvocato, che si offre a Lewis come aiuto e che come mestiere ora fa “lo zio di Roma”. Viene ingaggiato cioè per “dare importanza” a certi funerali, a taluni defunti, fingendosi come uno zio arrivato apposta dalla Capitale per salutare il morto.

Di questi aneddoti, di questa umanità comunque affettuosa il viaggiatore “soldato” Lewis si innamora; forse comincia anche ad intravvedere cure per questa città che in fondo è solo “il più grande paese del mondo”. Poi un nuovo incarico lo allontana. A malincuore, anche se con britannica disciplina, la lascia. Con Lattarulo, sempre povero in canna, vestito di tutto punto con l’abito da “zio di Roma”, che lo saluta mentre prende il treno dalla Stazione Centrale. Lewis va verso Taranto e poi da lì verso Porto Said: quest’anno vissuto a Napoli lo ha cambiato come persona e lo ha reso da osservatore, scrittore. Uno dei più importanti scrittori del ‘900.