Addio William Friedkin, cantore (scomodo) del lato oscuro dell’America
Muore a 87 anni, il 7 agosto, William Friedkin. Uno dei volti più noti della New Hollywood, famoso per l’inseguimento de “Il braccio violento della legge” e, soprattutto, per “L’esorcista”, entrambi tratti da libri. Amatissimo dalla cinefilia, specie per i lavori meno riusciti a livello commerciale. A Venezia 80 il suo ultimo film, “The Caine Mutiny Court-Martial”, tratto, come tanto del suo cinema, da una pièce.
«I tuoi film sono pidocchiosi» gli disse una volta Howard Hawks, e c’è da ringraziare che non l’abbia presa male, ritirandosi o, peggio, rispondendo a tono. Sì, perché William Friedkin, morto il 7 agosto a 87 anni, nella New Hollywood si era guadagnato fama di irascibile e il conseguente soprannome Wild Bill, il selvaggio Bill.
Hawks certamente non aveva paura, i registi della nuova generazione non mancavano di deferenza nei confronti dei maestri della stagione passata e Friedkin non faceva eccezione, basti pensare alla lunga intervista che fece a Fritz Lang nel 1974. Ma nel raccontare quella conversazione cercava più che altro, con fare un po’ predatorio, di intestarsi la paternità di una sequenza.
In fin dei conti rimane il miglior complimento possibile, il maestro che prova a fregare il risultato all’allievo, c’è da andarne fieri. Ma non stupisce, perché la sequenza in questione è quella che già da molto tempo è diventata un caso di studio nelle scuole di cinema e lo rimarrà ancora a lungo, così come è e rimarrà una vetta ineguagliata nel cuore di chi ama i polizieschi.
Parliamo ovviamente dell’inseguimento tra un detective, Gene Hackman, in auto, e uno spacciatore, Marcel Bozzuffi, sulla metropolitana sopraelevata di New York ne Il braccio violento della legge. Era il 1971, Friedkin era già al suo quarto film, tratto da un libro inchiesta di Robin Moore, che esaminava la rotta francese dell’eroina (non a caso il titolo originale era The French Connection).
La forza di quella scena indimenticabile è difficile da identificare con precisione, ma è impossibile non vedere il suo debito con il cinema documentario, in cui Friedkin si era formato. Nato nel ‘53 da una famiglia di modesti ebrei ucraini, si era fatto le ossa nelle tv locali di Chicago, per poi fare il grande salto in quelle nazionali (dirigendo anche un episodio della striscia televisiva di Hitchcock) e, alla fine, nel cinema.
Nel mezzo, appunto, molti documentari, anche su temi scabrosi. Nel 1962 si concentrò sul caso di Paul Crump, un afroamericano condannato alla sedia elettrica e allora già da nove anni detenuto nel braccio della morte, causa un morto in una rapina finita male. Friedkin era convinto della sua innocenza e riuscì a dimostrare le zone grigie dell’accusa, al punto che la condanna di Crump venne commutata in ergastolo.
Un tema, quello della corte e delle ombre lunghe della giustizia che rimarrà a lungo con lui. Non a caso nel ‘97 diresse il remake televisivo de La parola ai giurati, dal teleplay di Reginald Rose, che certamente non arrivò al livello di Lumet ma rimane un ottimo film, con un Jack Lemmon in grande spolvero.
Paradossalmente, al grande schermo ci arrivò invece nel segno della frivolezza, dirigendo Sonny e Cher in un carosello di sketch musicali intitolato Good Times. Era il 1967, seguirono Festa di compleanno, dalla pièce di Harold Pinter e Quella notte inventarono lo spogliarello dal romanzo di Rowland Barber. Ormai come adattatore aveva iniziato a farsi un nome, tanto che decisero di assegnargli la trasposizione di The boys in the band, una pièce della Off-Broadway scritta da Mart Crowley.
Era un film delicato, quello, il primo di Hollywood a parlare apertamente di omosessualità. In italiano divenne misteriosamente Festa per il compleanno del caro amico Harold, quasi una copia del titolo del film precedente. I buoni rapporti con il mondo omosessuale per Friedkin però dureranno poco, frantumati nell’80 da Cruising, con Al Pacino, tratto dal libro del cronista del Times Gerald Walker, accusato di sottintendere un legame tra omosessualità e violenza sanguinaria.
In ogni caso il successo vero, Friedkin lo assaporò con Il braccio violento della legge e lo consolidò con quello che è senz’altro il suo capolavoro, L’esorcista. I buoni incassi del poliziesco e la crescente onda della New Hollywood spinsero gli studios ad affidargli l’adattamento del terrificante romanzo di William Peter Blatty. Il risultato fu un blockbuster rimasto cult, che sdoganò definitivamente l’horror e lo portò tra i generi più amati dal pubblico.
Da quel periodo magico Friedkin ne uscì con due Oscar (miglior film e e miglior regia) e altre due nomination, ma soprattutto con lo status di grande autore. Se il successo spaventoso a livello commerciale non riuscì mai a replicarlo, l’aura di maestro rimase sempre con lui e ha accompagnato anche i commossi saluti di cinefili e cinematografari di tutto il mondo.
L’idillio col pubblico finì quando nel ‘77 decise di riadattare Il salario della paura, su soffiata dell’autore del libro Georges Arnaud, insoddisfatto dalla trasposizione che ne aveva fatto Henri Georges Cluzot più di vent’anni prima, Vite vendute. Il flop di incassi gli chiuse il rubinetto facile degli studios, ma lo incamminò sulla strada dei grandi rivalutati dalla cinefilia redenta del nuovo millennio.
Gli aneddoti sulla sua carriera non mancano, il più curioso è forse quello occorso durante la post produzione di Pollice da scasso, tratto anch’esso da un romanzo, ma che Friedkin per primo giudicava mal riuscito. Armi in pugno, una banda non particolarmente edotta sulla pratica cinematografica sequestrò cinque bobine e chiese un riscatto di un milione. Friedkin spiegò loro al telefono cosa fosse un positivo e un negativo e che quel che avevano rubato erano essenzialmente i giornalieri e gli scarti, consigliandogli poi di acquistare un proiettore e goderseli.
Nell’ultima parte della sua carriera, acquietato dal quarto matrimonio con la mogul Sherry Lansing (prima moglie fu invece Jeanne Moreau), Friedkin non ha certo smesso di lavorare, ma si è accomodato nella piccola sacca dei moviegoers accaniti, lontana dal grande pubblico. I festival europei gli hanno dedicato grandi spazi, in concorso prima a Cannes con Bug (da Tracy Letts, premio FIPRESCI nel 2006) e poi a Venezia con Killer Joe (ancora da Letts, Mouse d’oro nel 2011).
Proprio al Lido ricevette nel 2013 il Leone alla carriera e troverà nell’edizione di quest’anno la première del suo ultimo lavoro, The Caine Mutiny Court-Martial, dalla pièce di Herman Wouk. Anche L’esorcista era in programma a Venezia, nella sezione dedicata ai restauri. Doveva essere un nuovo, ulteriore tributo alla sua carriera. Sarà invece il saluto della Mostra a un regista che ha segnato col terrore l’immaginario di una generazione.
Tobia Cimini
Perditempo professionista. Spende il novanta percento del suo tempo leggendo, vedendo un film o ascoltando Bruce Springsteen. Nel restante dieci, dorme.
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