Al cinema con Arbasino. Sull’autostrada della bella di Lodi che porterà alla casalinga di Voghera

“Scrittore italiano” è una definizione fastidiosa e riduttiva per Alberto Arbasino, scomparso il 23 marzo a 90 anni dopo una lunga malattia. Intellettuale ironico e raffinato, straordinario osservatore e narratore della realtà (sua l’invenzione della “casalinga di Voghera), ha lasciato lezioni importantissime sulla qualità (e quantità) del bagaglio culturale necessario per analizzare e sintetizzare il mondo. Al cinema, a partire da un suo romanzo, ha regalato uno dei film più folgoranti e anticipatori sull’Italia del boom: “La bella di Lodi” per la regia di Mario Missiroli con una strepitosa Stefania Sandrelli diciassettene. Da (ri)vedere in rete …

 

È morto Alberto Arbasino per il quale, data la sterminata produzione e la frequentazione internazionale, risulta quanto mai fastidiosa e riduttiva la definizione “scrittore italiano”.

Folgorante una sua osservazione: «Il male di vivere lo incontravo a Voghera, ma non lo salutavo» .

Essere nato e cresciuto lì a Voghera, nel paese della proverbiale casalinga e stereotipo di una provincia profonda, non poteva che produrre lo stimolo alla fuga.

Dal secondo dopoguerra ad oggi, uno scritto alla volta, ha lasciato lezioni importantissime sulla qualità (e quantità) del bagaglio culturale necessario per osservare, analizzare e sintetizzare il mondo.

Motivi per essere folgorati, tra i tanti, l’assoluta assenza di autocompiacimento. «Gadda diceva di sé: “Io non sono né esibitivo né narcissico” e io posso dire la stessa cosa di me. “Low profile” è la parola d’ordine».

Ma anche il coraggio delle proprie convinzioni (sono numerose e leggendarie le polemiche alle quali ha dato fuoco negli anni), quel personalissimo dandysmo e, soprattutto, l’elegante disincanto che gli veniva da una capacità insuperabile di guardare alla realtà rifiutando la ben più comoda figura dell’intellettuale organico e allineato. Senza dimenticare il modo charmante e aristocratico col quale porgeva il suo sterminato sapere.

Questo non gli vietava di essere anche spietato, con la consueta eleganza, anzi era una ulteriore conferma della libertà di pensiero che lo connotava. Libri come Fratelli d’Italia o Paesaggi italiani con zombi, entrambi editi da Adelphi, lo dimostrano. Per inciso, ne La grande bellezza di Sorrentino, vedere e ascoltare Jep Gambardella (Toni Servillo) sulla terrazza romana massacrare implacabilmente con grande charme Stefania (Galatea Ranzi) non può non far pensare a qualcuno di molto somigliante ad Arbasino.

Un amico, parlando di lui, ha sentenziato: “Pare incredibile che in diretta già raccontasse criticamente la Beat Generation e molto più di quanto fece la Pivano” e allora, concordando in pieno, è utile l’articolo che Arbasino pubblicò sull’Espresso del 9 Ottobre del 1966 (il pezzo integrale è leggibile al seguente link) e nel quale raccontava dell’incontro romano con Jack Kerouac, l’autore di On the road, la bibbia per molti, tracciandone un desolante ritratto. «”Miller ha copiato tutto da Céline. Il vero genio tutto originale è Burroughs, che è mio amico. Ma lo sappiamo solo io e Anaïs Nin, che Henry Miller ha copiato tutto da Céline”. Gli dico che se ne sono accorti in parecchi. Viene lì col pugno. Poi ride» e più avanti «Questi autori americani sono molto diversi dai nostri; e quelli alcolici, tutti uguali fra di loro. Cerco d’immaginare delle analogie, quando racconta: per esempio, io con Sanguineti oppure con Testori, che andiamo a trovare Ottieri oppure La Capria, e lì invece di parlare del Gruppo 63 ci tiriamo dei pugni per giocare, e a un tratto giù i calzoni, e poi fuori le bottiglie, e poi giocare a dadi nell’alba con Parise…». Inevitabile cogliere l’ironia che aggiungeva ulteriore arma all’uomo e all’opera di Arbasino.

Sarebbe sterminato parlare dei suoi libri, ma ce n’è uno che ha il merito non secondario di aver introdotto Arbasino al cinema, non solo come appassionato e colto frequentatore della Via Veneto raccontata da Fellini. Quel libro è La bella di Lodi, uscito a puntate sulle pagine de Il Mondo nel 1960.

Il film, che mantenne lo stesso titolo, vide alla sceneggiatura Arbasino stesso, coadiuvato da colui che ne curò anche la regia: quel Mario Missiroli poi diventato uno dei mostri sacri del teatro italiano.

Già il libro è il film, per questo si può dire che la sceneggiatura fosse già scritta. Una dimostrazione? L’estratto che segue non è forse una sinossi della pellicola? Non è un movimento di camera su di una spiaggia della Versilia dei primi ‘60 col quale si introducono i due protagonisti e lascia intendere la storia che ne seguirà?

La Roberta è “biondissima, stupenda di figura”, ha terra e vacche, gambe lunghe e buon appetito. Cura l’azienda agro-casearia di famiglia che rende un mucchio di dané. 
La bella di Lodi a Milano non si sogna nemmeno di passarci l’inverno, ci va a fare shopping. E va di qua e va di là, fa un saltino sulle montagne svizzere e uno a Parigi, una puntatina a Roma e un voletto a Londra o a Montecarlo.

Frequenta gente del suo ambiente in feste che s’afflosciano fra un “Ui ti!” e un “Se ghè!”. Rompe la noia al mare, la Roberta. Ci va con la sua MG rossa. Cammina col foulard in mano, adocchia un “ragazzaccio italiano brutto/bello dritto/stronzo coi capelli lunghi e le braccia grosse, vestito come viene viene, ma coi suoi jeans chiari e ben stretti da pifferaio, sdraiato al sole che dormicchia o finge di dormicchiare”. E si sdraia poco distante, sulla sabbia, e quasi s’addormenta anche lei. Chi sarebbe questo strafico col gran pacco? È il Franco che s’è cambiato nome a quindici anni neanche, perché non gli piaceva Italo.

È mica un borghese lui. Macché, il Franco è proletario. Una bestia, quasi. Fa il meccanico d’auto. S’avvicina alla Roberta e con la scusa di cercare l’accendino mette le mani nella borsetta. Ma è modo?  La Roberta guarda il ragazzaccio e le brucia la voglia. Dai, roba di una notte, roba da calda estate. Poi passa. Forse. Sicché, il Franco-Italo che quando è felice fa dei versi che nell’ambiente della Robi non si son mai sentiti, che è rozzo e ignorante e anche un po’ sozzo, a lei piace tanto. E un uomo in famiglia farebbe comodo. L’ha detto anche la nonna. Quella che “comanda lei”.

Il film arrivò nelle sale nel 1963 con una diciassettenne Stefania Sandrelli e Angel Aranda, quali protagonisti, e racconta la storia d’amore tra Roberta e Franco… o Italo. Lei è la frivola, annoiata e capricciosa borghese orfana ed erede di industrialotti agroalimentari lodigiani. Lui è un piacente (quello col “gran pacco”) ma umile e ruspante meccanico che la ragazza vuole elevare perché si possa sfoggiare in società senza particolare imbarazzo e chiacchiericcio.

Quello che colpisce del film è il sapore realistico e freddo dell’Italia provinciale e benestante del Boom. Ben lontano dalle coeve caricature dello schermo, più vicino a Zurlini che a Risi.

Mario Missiroli disse del film: “Sentiva l’arrivo del “boom” economico, registrando in modo molto interessante il radicale cambiamento in atto nella società italiana: era un boom che si annunciava davvero come un allegrissimo temporale sullo sfondo degli esterni. Un altro motivo d’interesse stava nell’idea che avemmo di dargli come spina dorsale l’Autostrada del Sole.”. Missiroli aggiunge poi “La stessa sceneggiatura aveva molto di moderno nella sua asciuttezza, nella sua forma ellittica. Ma forse il pregio maggiore della Bella di Lodi era di essere un po’ troppo in anticipo, e questo era anche il suo vero difetto”. Eh, chiamalo difetto.

Vedi qui il film, La bella di Lodi