Altro che fame di cultura è cultura da fame. Tra 4 e 6 euro le paghe nel settore dei beni culturali

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Da 4 a 6 euro l’ora. Questa in certi casi la paga di chi è impiegato in ambito culturale. Emerge da una ricerca firmata dall’associazione “Mi riconosci”, nata per dare voce e giustizia a tutti i professionisti del settore. Ne emerge un quadro inquietante che descrive un paese dove, nonostante ci sia la più alta concentrazione di beni culturali al mondo, ancora una volta, purtroppo, “la cultura non si mangia” secondo l’odioso e storico adagio di Tremonti …

 

“TottoTruffa” di Camillo Mastrocinque in cui Totò “vende” la Fontana di Trevi a un turista italo-americano

 

Nicolás Gómez Dávila, scrittore colombiano vissuto nel Novecento, è celebre per aver detto che l’uomo colto non converte la cultura in professione. Non ci guadagna da vivere e non deve essere suo interesse farlo, perché tutto ciò che ha a che fare con il sapere deve essere motore delle nostre vite, certo, ma non carburante.

Al giorno d’oggi, che sono tempi neri, anzi nerissimi, le parole del filosofo ultraconservatore assumono il tono di un anatema. E già perché con la cultura davvero non si riesce a vivere.

A tal proposito, l’associazione “Mi Riconosci”, nata nel 2015 per dare voce e giustizia a tutti i professionisti dei beni culturali, ha condotto un’indagine su 2526 persone, di cui la maggioranza è formata da giovani donne tra i 26 e i 39 anni impiegate nel settore culturale. Tutti gli intervistati, inoltre, hanno almeno la laurea triennale.

I risultati di questa ricerca a campione hanno messo in luce una situazione ai limiti della fame con paghe parecchio al di sotto del salario minimo. Solo il 70% dei lavoratori dipendenti guadagna circa otto euro l’ora, il minimo sindacale appunto, ma per i lavoratori autonomi la percentuale cala fino a raggiungere il 40,2%.

Ed è proprio tra i freelance che il 5,7% guadagna meno di 4 euro l’ora, mentre il 13,7% ha una paga netta tra i 4 e i 6 euro. Numeri sconcertanti che mettono in luce due problematiche ancora più gravi e profondamente radicate nel tessuto sociale della penisola. Innanzitutto che la cultura in Italia, paese con la più alta concentrazione di beni culturali al mondo (il 5% stima l’Unesco) non conti nulla, non (ri)paghi appunto. E, seconda, che a scontare maggiormente questa situazione sono le donne, da sempre fanalino di coda in fatto di salari.

Per non parlare dell’alto livello di disoccupazione registrato, che ammonta al 15.50%. Sono molti i lavoratori, infatti, che decidono di abbandonare la propria occupazione a causa dei salari (troppo) bassi, per la mancanza di tutele, il mobbing e per quello che è un ambiente spesso ostile, un mattatoio nel quale i nostri professionisti vengono sfruttati, senza neppure il miraggio di ferie o tredicesima, alla mercè di padroni più che di datori di lavoro.

Poi, ancora, un terzo degli intervistati è costretto a fare due lavori non per sbarcare il lunario ma per arrivare senza troppi debiti a fine mese. Tra tutti gli intervistati, infatti, solo il 13,10% ritiene di poter vivere con il solo stipendio percepito, seppur sottostando spesso e volentieri ad intimidazioni e a mobbing.

Del resto l’Italia è il paese della “cultura non si mangia” secondo l’ormai storico – e tanto più infelice – adagio del berlusconiano ministro delle finanze Giulio Tremonti, anche se oggi sembra se ne sia dimenticato, con smentite su tutti i giornali. O ancora è il paese del ministro della cultura Dario Franceschini, che, addirittura, in piena emergenza Covid spiegò agli italiani che quello dello spettacolo non è neppure un lavoro, ma una “vocazione”.

Certo è evidente che la pandemia ha aggiunto crisi alla crisi. Ma è ancora più evidente l’assenza di politiche culturali per lo sviluppo del comparto culturale. È l’Italia bellezza, che la sua bellezza sembra davvero essersela dimenticata.