“Bangland”, la via autarchica dell’animazione italiana

L’ascesa del piccolo film del giovanissimo Lorenzo Berghella, presentato ai Venice Days 2015. Una produzione autarchica (Ro’Film e Axelotil), un frullato ultracitazionista che si nutre di Storia, letteratura, cinema e pop. Una proposta innovativa e spiazzante per lo scenario del cinema italiano. Cercatelo tra festival e rassegne e da settembre in sala (Napoli e Firenze) per la Pablo di Gianluca Arcopinto…

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Il presidente degli Stati Uniti, Steven Spielberg, dichiara guerra allo Stato africano del Mahaba per conquistare i giacimenti diamantiferi. Il casus belli da gettare in pasto al popolo? Armi di distruzione di massa. È una distopia visionaria prossima alla realtà, il piccolo film di animazione di Lorenzo Berghella: Bangland, miniatura che supera appena i 60 minuti, è stato presentato alle Giornate degli Autori a Venezia 2015, dove ha vinto il premio Siae e ha avuto un percorso in crescendo, aggiudicandosi ultimamente anche la vittoria al Cinecittà Film Festival a Roma.

Il regista di Pescara, classe 1990, insieme ai suoi collaboratori offre una proposta innovativa, originale e soprattutto spiazzante per lo scenario del cinema italiano, fuori dalle solite logiche. La sua opera è un azzardo di sci-fi, una leggera deformazione del contemporaneo che – tutto sommato – non si pone lontano da esso, fa solo un passo di lato e proprio per questo risulta particolarmente inquietante. Mentre gli Usa sono in guerra a Bangland, la terra del bang, si scatena il terrorismo e il suo contrario, la dura repressione dell’autorità.

Se il regista de Lo Squalo ha ottenuto la guida del governo, a dominare la scena pubblica è un tele-predicatore col volto di Bill Murray (“Il riso uccide la paura”, afferma): nel frattempo all’interno di un racconto corale si muovono vari personaggi, fantasmi su sfondo devastato, alcuni principali e altri secondari. Gli idoli marciscono, le icone si spengono: c’è un Bugs Bunny ridotto a eroinomane, che finirà ucciso a causa dei debiti, e c’è un nuovo candidato alla presidenza del Paese, novello Kennedy che promette la fine del conflitto allo slogan lennoniano “Give peace a chance”.

In un luogo fatto di violenza, dipendenze, killer che si credono dio, Berghella intavola un frullato ultracitazionista che si nutre di Storia e invenzione, letteratura e cinema, pop e autore: la cultura americana viene sminuzzata, masticata e ripresentata in altra forma. Sempre riconoscibile, ed è questo il suo effetto destabilizzante: tra i mafiosi italiani di Scorsese e il pulp iperrealista di Tarantino, tra De Lillo e Foster Wallace, tra il caso Rodney King e lo Spielberg a metà tra Bush e Reagan, la pellicola rimesta nella narrazione e riflette sui suoi luoghi comuni, deformando slogan (“In gold we trust”), frequentando generi (il serial killer di pedofili), sfoggiando iconoclastia. Basti dire che la polizia si mobilita per catturare Dio e processarlo per crimini contro l’umanità.

Nella costruzione dell’animazione il riferimento principale sembra essere Ari Folman: come l’autore dello splendido Valzer con Bashir, il regista abruzzese sceglie di cesellare una dimensione sospesa a suggerire il tempo di guerra. Nei tratti stilizzati delle figure, negli acquerelli degli sfondi si forma gradualmente un’animazione mentale che dialoga con l’inconscio, non limitandosi a disegnare una grafica “concreta” del racconto ma insinuando anche l’immagine interiore, le visioni mentali e le ombre delle cose.

Così i personaggi ambigui, pazzi o disperati ripassano un catalogo della miseria umana: come il reduce che compie una strage fuori dal cinema (in cui si proietta il film maledetto The Night of Living Dread…), è un continuo rimando all’attualità, coniugando verità e finzione, mescolando tutto nell’approccio postmoderno.

Quasi ogni scena contiene una citazione, dal club hard “Natural born strippers” al locale chiamato Bradbury, il gioco è trovarle tutte. Il punto della questione è però un altro, ovvero la sostanza di un’animazione malinconica e pessimista, perché la Storia, anche se ibridata alla fiction, subisce sempre corsi e ricorsi, per un nuovo Kennedy c’è un Oswald pronto a sparire. Per la follia dell’uomo non è prevista uscita, il pianeta può solo collassare, unico sbocco la guerra civile che divampa nell’America/mondo e si estende potenzialmente infinita, sulle note dell’Ave Maria di Schubert.

Secondo la teoria tarantiniana, quella sottintesa alla base di Kill Bill, c’è oggi un’unica originalità possibile che si rinviene nel cocktail del già noto: tutto è stato fatto, tanto vale mescolare pazzamente gli elementi. È l’assunto di Bangland, che sfiora anche il sovraccarico, rischia di farsi divorare dal proprio ricco retroterra: ma l’originalità del tentativo resta fuori discussione.