Il canto libre di Pablo, vittima dell’omofobia

Alla Berlinale nella sezione Panorama, “You’ll never be alone” del musicista Alex Anwandtet. Un piccolo film cileno dal carattere forte che denuncia il clima di violenza del paese nei confronti dei gay. La storia di un diciottenne omosessuale, molto amato dalla sua famiglia, ispirata ad un drammatico fatto di cronaca….

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Cile. Pablo è un ragazzo di 18 anni che vive a Santiago con il padre Juan, fabbricante di manichini. L’omosessualità di Pablo è nota, tutti la conoscono, il padre la accetta e comprende, lui vive apertamente: il film si apre con il giovane all’uscita del liceo che ha un incontro sentimentale con un suo coetaneo. Tutto alla luce del sole.

Tra le centinaia di pellicole tradizionalmente presentate alla Berlinale, tra i fratelli Coen e Michael Moore, arriva You’ll never be alone (titolo originale Nunca vas a estar solo), esordio alla regia del musicista cileno Alex Anwandtet, presentato in prima mondiale nella sezione Panorama. Una miniatura (82 minuti) ispirata a un fatto realmente accaduto: l’omicidio del giovane omosessuale Daniel Zamudio nel 2012, vittima di un’aggressione neonazista, che provocò un’onda di commozione e mobilitazione nel paese.
Nella messinscena Pablo (il giovane Andrew Bargsted al debutto) ama ballare e travestirsi, ha una migliore amica, ripone nella danza un’ambizione. Ama suo padre, uomo ormai maturo (Sergio Hernández, grande interprete cileno, tra gli attori di No di Pablo Larraìn) che ricambia nel modo più alto possibile, accettando naturalmente l’essenza del figlio. Nell’evoluzione drammatica dell’intreccio, però, la tragedia è dietro l’angolo: Pablo sarà vittima di una violenta aggressione che simbolicamente lo sfigura, privandolo dell’identità, ed entrerà in coma. Così la storia cambia protagonista e vira improvvisamente sul padre, Juan che passa al centro della scena, alle prese con lo spaesamento della situazione, l’impossibilità di capire, l’assurdità del contesto.

Se un “queer movie” sudamericano ha vinto l’ultimo Leone d’oro (il venezuelano Ti guardo di Lorenzo Vigas), qui si torna a riflettere sull’essere gay oggi in Sudamerica, ma sotto un’altra prospettiva: la peculiarità della vicenda è la vita aperta di Pablo, l’accettazione da parte della famiglia e degli affetti, il rispetto di un’omosessualità scoperta. Se dentro il nido domestico egli è amato e protetto, però, lo stesso non avviene di fuori: qui lo scenario sociale è implacabile e feroce, l’omofobia pronta a colpire.

Critica sociale al Cile, con la polizia immobile davanti a certi reati (nessuno ha visto niente), il film è girato con una grammatica chiara e leggibile, che sfrutta i cromatismi disco nelle nottate dei ragazzi e, di contrasto, azzarda una camera a mano traballante nella ripresa dell’inseguimento che precede la violenza. Il dramma sconta una tentazione simbolica a tratti pesante, come l’insistenza sul lavoro del padre (creare manichini) a confronto con la tragedia del figlio (non ha più un volto), ma non importa perché rilevante è quello che insinua: non basta la vicinanza dei propri cari quando è il contesto che ti condanna. Allora la questione privata diventa universale e politica: vediamo l’affresco cileno ma, pesando alle nostre ambiguità, ai Family Day e alla negazione dei diritti elementari, non possiamo che guardarci allo specchio.

Sui titoli di coda scorre Mi libre canción di Lucio Battisti, versione spagnola de Il mio canto libero, epigrafe alla tragedia e presa di posizione, chiusura utopica di speranza. Questo il senso ultimo del Festival di Berlino: tra le pieghe della grande distribuzione e dei cineasti affermati, fuori dalla caccia all’Orso d’oro, un invito a girare la testa anche verso i piccoli film, sguardi lontani in cui ci riconosciamo.