“Captive State”, ci risiamo maledetti alieni. Sulla Terra occupata, tra collaborazionisti e ribelli

In sala dal 28 marzo (per Adler Entertainment), “Captive State” di Rupert Wyatt. Ennesima variazione – quanta letteratura oltre che cinema a proposito – del sottogenere fantascientifico dell’invasione aliena condita, però, con il contesto totalitario alla Orwell. Il film non passerà alla storia del genere, ma ha comunque più di una ragione per essere apprezzato. Con un monolitico John Goodman, nel ruolo del capo della polizia Mulligan …

Dieci anni dopo un’invasione extraterrestre, il mondo è governato da occupanti alieni che ne sfruttano, prosciugandolo le risorse minerarie. Gli umani conducono esistenze apparentemente regolari.

Il lavoro non manca e la criminalità è ai minimi storici. A garantire questa serenità indotta provvedono le stesse forze dell’ordine, assimilate dagli invasori, come del resto lo è ogni altro organismo ed istituzione.

I terrestri si sono adattati, vivono con rassegnata normalità la loro condizione di reclusi sul loro stesso pianeta in uno stato di cattività – da qui il titolo – Captive State. Gli sparuti focolai di ribellione sono stati sedati da tempo. Almeno questo è quanto  ritengono gli invasori e i collaborazionisti. Ma una fenice non può che risorgere dalla cenere…

Essendo oramai disponibile un’intera cinematografia, specie di derivazione letteraria, incentrata sul sottogenere fantascientifico dell’invasione, si pensi a La Guerra dei mondi, immaginato ben centoventidue anni fa dal genio di H. G. Wells e al successivo, Addio al Padrone di Harry Bates, a cui Robert Wise attinse per il suo Ultimatum alla Terra, a cui si aggiungono le numerose serie tv dalla stessa La Guerra dei mondi a V – Visitors, la trama del film in questione a prima vista sembra non proporre particolari elementi di richiamo. Ma appunto, apparentemente.

Perché a conti fatti, il regista e sceneggiatore Rupert Wyatt trascura l’invasione, aspetto non imprescindibile ai fini della trama e soluzione funzionale ad un budget limitato (venticinque milioni di dollari) e non stratosferico rispetto al genere, per concentrare l’azione sullo status quo di stampo vistosamente orwelliano.

Se da un lato neppure questa chiave narrativa si rivela particolarmente originale, da Brazil a V-per Vendetta, la fantascienza sociologica che ha indagato il contesto totalitario è stata spremuta di tutta la polpa, dall’altro la commistione con l’invasione aliena apre uno scenario inedito che non può non affascinare.

Il film non sembra comunque destinato a scrivere pagine indelebili della cinematografia di genere, tuttavia offre più di una ragione per essere apprezzato: le musiche che ben puntellano lo stato di costante angoscia che avvolge la trama, rimandano alle partiture algide e rarefatte di Blade Runner; i contesti esterni recuperano per intero quel senso di cupa clandestinità da Mitteuropa che da sempre contraddistingue l’atmosfera di regime orwelliano (da recuperare i videoclip degli Ultravox); la nave spaziale degli alieni rimanda più o meno consapevolmente a Il Castello dei Pirenei di Magritte.

Sul cast, piuttosto incolore, svetta un roccioso, monolitico John Goodman, nel ruolo del capo della polizia Mulligan. Su di lui e  sulla prostituta ed ex insegnante interpretata da Vera Formiga, ruota un gioco di specchi che molto ha a che fare con una possibile quinta colonna…