Carver, la grandezza della normalità

short-cuts-carver

Quella lingua usata da tutti. E che fino ad allora era stata quasi estranea alla letteratura. “Quanto a me, ho una stanza in città. Niente di speciale. Prendo l’autobus verso la periferia e dopo aver fatto il giro, vado in un’altra città. Capisce cosa voglio dire? Anch’io avevo dei figli una volta. Un po’ come lei”.

Molto si è discusso sul linguaggio di Raymond Carver, su quella sua essenzialità nel raccontare storie, disegnare spezzoni di vita, che lascia spiazzato chi sta dall’altra parte del libro. L’hanno chiamato “minimalismo”, espressione che a lui però non piaceva affatto. Convinto che quella definizione rimandasse a personaggi senza dialoghi, rimandasse a protagonisti senza spessore. Tutti elementi che invece possedevano eccome le donne e gli uomini di quella sua America di provincia, l’America che non riesce mai a pagare le bollette, l’America dove moglie e marito sono due estranei ma che s’inalberano davanti ad uno show televisivo. L’America dove si beve e si prova a non pensare. Ma dove i pensieri alla fine escono fuori: come in quelle frasi iniziali, dette da uno sconosciuto che si presenta a casa del protagonista di uno dei diciassette racconti – Mirino – di Cosa parliamo quando parliamo d’amore. Sconosciuto che in una frase svela e getta anche lì il dramma personale di Carver che in più di un’occasione ha raccontato del rapporto drammatico che aveva con i due figli avuti dalla prima moglie: arrivati “troppo presto”. “Avevo anch’io dei figli una volta”. Quando fu dato alle stampe, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, Carver era già uno scrittore conosciuto. Affermato no, almeno non nel senso tradizionale. Perché fino ad allora i suoi racconti e le sue poesie, gli avevano procurato tanti premi, qualche incarico all’università di Syracuse ma pochi dollari.

Quel libro – che ora sappiamo fu tagliato e ridotto dal suo editor e vate Gordon Lish per renderlo ancora più “minimalista”, stile che cominciava a piacere alla critica americana che conta – sarà la sua fortuna. La leggenda racconta che Robert Altman, durante un volo intercontinentale, chiese un libro ad suo vicino di posto. Ed era proprio il libro di Carter, appena uscito. Che poi sarebbe diventato quel mosaico straordinario che tutti conoscono come Short Cuts.

Molti sono convinti però che Altman abbia preso con quel film i personaggi migliori, abbia preso le migliori grigie sale da pranzo, abbia preso i migliori dialoghi fra quelle coppie che non avevano e non hanno più nulla da raccontarsi ma s’interrogano sul senso dell’amore. Molti dicono che quel film abbia racchiuso tutto Carver. Ma forse non è vero. Quei camerieri o quei venditori ambulanti, quelle commesse, quei pensionati – ex qualcosa che nessuno ha più voglia di indagare -, quell’universo carveriano, insomma, continua ad essere lo strumento perfetto per chi abbia voglia di raccontare. Di raccontare di una routine senza speranza. Come capita tutti i giorni, a tante persone.