Cenerentola e la lotta di classe, al cinema

Il film di Kenneth Branagh e “Into the Woods” di Rob Marshall, entrambi di casa Disney, offrono due modi opposti di rappresentare la fiaba: il rispetto della fonte contro il suo tradimento.

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Anna Kendrick e Lily James

Due modi opposti di inscenare la fiaba si confrontano nelle sale italiane. Con un curioso intreccio dovuto al trattamento diverso della stessa figura, ovvero Cenerentola. Da una parte c’è Kenneth Branagh, l’attore e regista britannico con la sua versione della fiaba di Perrault-Grimm. Dall’altra Rob Marshall, il regista di Chicago, che traspone il musical Into the Woods di Stephen Sondheim. Due film prodotti dalla Disney ma agli antipodi, entrambi di successo (3 nomination all’Oscar per Into the Woods, tra cui Meryl Streep), che ripongono con forza il problema narrativo della rappresentazione della fiaba oggi.

Negli anni delle riletture più estreme (uno per tutti: Hansel & Gretel – cacciatori di streghe, in chiave horror/fantasy), Branagh e Marshall offrono il simbolo di due modalità di riscrittura. Kenneth Branagh è un esperto traspositore di testi difficili: a lui si deve, nel corso degli anni, dal celebre Enrico V del 1989 al recente Il flauto magico del 2006. Da Shakespeare a Mozart, passando per la favola, l’approccio di Branagh è filologico: l’inglese ritorna alla fonte ricostruendo sullo schermo la storia originaria, passo dopo passo, rispettando con cura le tappe del testo. Ecco allora la vita della giovane Ella, dorata fino alla morte della madre, e poi la degenerazione con l’arrivo della matrigna e delle sorellastre: quindi la scomparsa del genitore, il declassamento alla funzione di serva, il rispetto rigoroso del motto “sii gentile, abbi coraggio”.

L’inglese pone l’accento sulla “lotta di classe” che vive tra le righe di Cinderella, giocata sull’atavico contrasto tra ricchi e poveri: ovviamente se la giovane protagonista andrà al ballo al palazzo del re, beffando la matrigna e le sorellastre, è perché l’unica vera nobiltà è quella d’animo e non di censo. Ma il ritorno della prima Cenerentola alla fine lascia un dubbio: il lieto fine sarebbe possibile senza la magia? Alla fine la voce fuori campo ammette ironicamente il ricorso al sovrannaturale per garantire l’happy end alla protagonista. Per far vincere i più umili, sembra dirci, non basta lottare ma serve anche un intervento magico.

Opposta Cenerentola troviamo in Rob Marshall. Qui la fiaba è rimasticata, modellata e deformata, nel senso che cambia forma: la protagonista – addirittura – resta incollata alle scale del palazzo reale, ricoperte di pece dal principe che vuole trattenerla. I bianchi e neri della trama diventano improvvisamente grigi: dopo aver frequentato il principe, Cenerentola sceglie di respingere sia la povertà delle origini, sia il lusso nel castello del re. Vuole una via di mezzo. L’abisso tra le due cenerentole viene rimarcato anche graficamente, basti rilevare la distanza nei tratti tra Lily James e Anna Kendrick.

In generale, l’idea di Marshall incrocia e stravolge molti immaginari, manomettendo con ironia i loro tratti distintivi per renderli irriconoscibili: Cappuccetto Rosso, Raperonzolo, Jack e la pianta di fagioli vengono riscritti e volutamente sfigurati, non come tradimento dell’originale bensì come paradossale forma di omaggio. Secondo un assunto implicito: una storia, se funziona, può essere reinstallata in qualunque tempo e luogo, anche manomessa. Così nasce una “nuova” fiaba, lontana dall’originale di cui mantiene solo nomi e icone (il mantello rosso, il lupo), che diventano gusci vuoti da riempire con un’altra ipotesi narrativa.

Cenerentola di Branagh e Into The Woods di Marshall rilanciano quindi l’antico dilemma sulla trasposizione cinematografica di un testo: tradire o rispettare? Versioni opposte e speculari, la riproposta della fonte contro la sua rilettura ardita. Entrambe sono lecite: a visione ultimata, però, nel tempo della riscrittura di ogni archetipo, il rispetto di Branagh e il suo ritorno all’origine sembra il vero atto di resistenza.