Frammenti di discorsi (deliziosamente) affettuosi. Una notte in taxi per Sean Penn e Dakota Johnson
In sala dal 19 dicempre (per Lucky Red) “Una notte a New York”, sorprendente opera prima della drammaturga statunitense Christy Hall, pensata in origine come una pièce di cui infatti il film conserva l’impianto teatrale. Durante una corsa notturna a New York il confronto (scontro) tra due mondi: il divario generazionale, il divario uomo-donna, il divario delle reciproche sensibilità. Un gustoso pas de deux tra Sean Penn e Dakota Johnson, rispettivamente nei panni del tassista e della passeggera …
Il viaggio in auto dall’aeroporto JFK di New York a Midtown Manhattan, teoricamente e se tutto va bene, dovrebbe durare circa un’ora e un quarto. Teoricamente perché di giorno il traffico congestionato, gli eventuali incidenti, i lavori in corso, le barriere per pedaggi e l’imbuto rappresentato dal Queens-Midtown Tunnel possono moltiplicare a dismisura i tempi.
Di notte è un po’ diverso, più facile che vengano rispettate le previsioni di percorrenza. Perché tutte queste informazioni pratiche da guida turistica tascabile? Primo perché sono cose che è sempre utile sapere, secondo perché c’è un film che le contiene tutte visto che si svolge nel tempo esatto di una corsa dall’aeroporto in città, compresa una sosta in coda per un incidente; si intitola Daddio (potremmo tradurlo con il vezzeggiativo “paparino”?) ma per la proverbiale banalità nostrana è stato ribattezzato Una notte a New York.
Nel mondo di oggi un viaggio in taxi spesso si svolge nel più totale silenzio, con il passeggero intento a compulsare lo smartphone per tutto il tempo. Una buona strategia per eludere conducenti fastidiosi o semplicemente chiacchieroni. Al contrario, in Una notte a New York, il tassista all’ultima corsa della lunga giornata di lavoro e la ragazza caricata al JFK iniziano a parlare.
L’autista Clark (Sean Penn), e la sua passeggera (Dakota Johnson), della quale non sapremo il nome se non il generico “Girlie”, come lui le si rivolge, hanno un sacco di tempo da ammazzare nella corsa notturna newyorkese. Sulle prime il discorso si rigira con le banali chiacchiere che si fanno in quelle occasioni: tariffe forfettarie da e per l’aeroporto, i sempre più rari pagamenti in contanti rispetto alle carte di credito. Banalità che comunque rappresentano l’avvio di una connessione.
Del dove e del come si articolerà la conversazione è meglio non dire. È un thriller? Lo si scoprirà. Di certo aleggia la sensazione che in quel viaggio, in quel taxi, tutto possa succedere.
Man mano che la corsa procede verso la sua destinazione la conversazione perde la superficialità iniziale per farsi sempre più concreta, a partire dalle differenze tra i due: il divario generazionale, il divario uomo-donna, il divario delle reciproche sensibilità.
C’è molto di ruvidamente accudente in Clark, reso ancora più credibile dalla faccia solcata dalle rughe meravigliosamente ostentate da Penn, così come è palese il bisogno di una figura paterna in Girlie.
E tuttavia quell’interno è uno spazio dove ogni giudizio viene sospeso, anche quando le cose si fanno più intense o nella conversazione sorge un disaccordo. Per qualche motivo, sembrano aver stretto un patto al quale nessuno dei due, ognuno per propri motivi o per analoghe solitudini, vuole sottrarsi: parlarsi fino a quando lui non avrà portato lei a destinazione mentre fuori scorre un mondo stradale con le luci di Manhattan in lontanaza a fare da quinta.
In questo film di parole la chimica tra Johnson e Penn è una cosa misteriosa che avvolge e coinvolge completamente lo spettatore per quanto è autentico e palpabile il pas de deux tra Clark e Girlie anche in quei botta e risposta di sguardi attraverso lo specchietto retrovisore.
Il film nelle intenzioni originarie di Christy Hall, già commediografa e sceneggiatrice (I Am Not Okay With This, 2020) alla prima regia su un lungometraggio, doveva essere realizzato in forma di pièce e solo successivamente è stato deviato sullo schermo, senza però cedere un grammo del rigore teatrale in favore di un più facile esito in sala.
E bene ha fatto Dakota Johnson a investire soldi suoi nella produzione per dare prova, finalmente, di non essere solo una figlia d’arte dalla filmografia non indimenticabile.
La fotografia di Phedon Papamichael (sua la fotografia di Nebraska, Le idi di marzo e de Il processo ai Chicago 7, giusto per dirne alcuni, ma ha più volte collaborato con Wim Wenders e Oliver Stone, tra gli altri) è il valore aggiunto del film.
Nel rapporto tra fotografia e sceneggiatura si articola il gioco delle angolazioni per fare di necessità virtù usando lo spazio ristretto come risorsa. È davvero sapiente l’uso delle luci di una sfocata Manhattan come sfondo che scorre fuori dai finestrini o gli occhi di Penn visti frontalmente o attraverso il retrovisore. Riflessi e rimbalzi, come rimbalzano i dialoghi tra i due. Le ombre e le luci disegnano l’interno e il modo in cui il volto di lei è incorniciato dal retrovisore contro il finestrino posteriore, rimanda forse non casualmente a Cybill Shepherd nella scena finale di Taxi Driver.
Christy Hall, con questa sua opera prima, aggiunge un nuovo episodio al novero del “cinema di parola” piazzandosi senza sudditanza tra campioni indiscussi del genere: da La mia notte con Maud di Rohmer fino al recente The listener di Steve Buscemi (visto nel 2022 alla Mostra di Venezia e mai arrivato in sala grazie alla miopia dei distributori italiani).
Se il Moretti in calottina e slip di Palombella Rossa schiaffeggiava la detestabile giornalista al grido di “Le parole sono importanti!”, Una notte a New York, non sbagliando neanche una sillaba, lo conferma, nel metodo e nel merito, tra i frammenti di discorsi che se non sono amorosi di certo sono deliziosamente affettuosi.
Gino Delledonne
Gino Delledonne
Architetto e docente universitario a contratto. Ha collaborato alle pagine culturali di vari giornali tra i quali "Diario" e "Archivio". Devoto del gruppo garage punk degli Oblivians.
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