Gwen Verdon stella di Broadway “davanti” al mito Bob Fosse. Il talento al femminile nel biopic su Disney+

Arriva nella libreria Disney + la miniserie US “Fosse/ Verdon”, biopic a puntate  sul sodalizio sentimentale e creativo che ha rivoluzionato Broadway a passo di danza, basato sulla biografia “Fosse” di Sam Wasson. Un vivido tracciato della decadente parabola Bob Fosse, demiurgo dell’acclamato “Cabaret” e leggenda del musical americano, che senza la ballerina prodigio Gwen Verdon non sapeva stare (né creare). Un patchworkdi flash e ombre che attraverso lo sguardo di Steven Levenson e Thomas Kail (e la performance da Golden Globe di Michelle Williams) ha saputo esplorare e riscattare il ruolo della donna davanti a un mito dello showbiz hollywoodiano  …

 

L’uomo dietro alle luci della ribalta, insieme “Faust e Mefistofele” travestito da showrunner dispotico e donnaiolo, ce l’aveva già raccontato Mr. Wasson nella sua biografia Fosse (Houghton Mifflin Harcourt, 2013), intimo e scrupoloso ritratto dell’artista, sciorinato in 700 pagine di retroscena e interviste.

Steven Levenson e Thomas Kail hanno ben pensato di serializzare il mito Bob Fosse cambiando il titolo del libro ed aggiungendo una co-protagonista d’eccezione: la ballerina di Broadway da 4 Tony Awards Gwen Verdon, genio creativo, musa e amante del regista-coreografo che voleva solo essere Fred Astaire.

È così che nasce Fosse/Verdon, miniserie americana confezionata in 8 episodi d’alta manifattura (andata in onda su Fox Life e ora disponibile anche su Disney+), che ricostruisce la verità drammaturgica  dell’unico uomo prodigio della storia ad aver collezionato nello stesso anno (1972) un Emmy (con Liza With A Z), un Oscar (con Cabaret) e un Tony (con Pippin). Un traguardo professionale che cammina a piè pari con una storia d’amore burrascosa e resiliente tra due astri nascenti dell’intrattenimento nella Grande Mela, un dramma privato che d’arte si nutre e che ad ogni successo di botteghino si reinventa, in una cornice allucinata fatta di tradimenti, anfetamina e ossessioni.

Levenson alla scrittura e Kail alla regia (già autore di Hamilton) ripercorrono in sequenze cronologiche scomposte questa relazione spettacolare e infedele nata sotto i riflettori dai tempi di Damn Yankees (1955), quando il mambo burlesco Who’s Got The Pain montato e duettato dai due ballerini (entrambi scuola Meisner) fa sciogliere le platee di Broadway in un estatico applauso che battezza l’esplosiva alchimia della coppia.

Poi è la volta di Redhead (1959), primo esperimento di regia per Bob Fosse al 46th Street Theatre starring Gwen Verdon – ormai sua compagna di fatto (oltre che di palco) che porterà presto allo sfascio il matrimonio con l’attrice e ballerina Joan McCracken – e dei capolavori da lui diretti e coreografati che hanno stravolto l’estetica del musical con la sua vena irriverente e beffarda, inconfondibilmente americana.

Uno stile plasmato dall’immancabile tocco Verdon che la serie ha il merito di tratteggiare come stella polare del talento Fosse, co-creatrice insostituibile ed unica “parlante nativa” della lingua di Bob, capace di tradurre le sue intuizioni prima ancora che lui le articoli.

Dopo il flop clamoroso del film di Sweet Charity (1969), sbirciamo infatti nei retroscena dorati del Cabaret (1972) di Liza Minnelli e Michael York, pluripremiato adattamento cinematografico della pièce dove il duo creativo in azione fa faville, rovesciando “un incubo da neorealismo italiano” (come apostrofato dalla produzione) nella pellicola da record in cui Gwen, col suo prezioso contributo, orienta lo sguardo del marito soffiando nuova vita nella storia ed una “verità” di cui l’America di Nixon ha disperatamente bisogno.

Alla sgargiante retrospettiva artistica, che riproduce millimetricamente numeri musicali cult (come Big Spender in Sweet Charity, i volteggi della Minnelli in Mein Herr o il vaudeville di Velma e Roxie in Chicago), si intrecciano le turbolente dinamiche di coppia tra i due coniugi performer, attratti da un’intesa creativa che ora unisce e ora polarizza in un estenuante agonismo adulterino puntualmente sublimato dalla loro complicità sul set.

Uno scontro viscerale che impasta violenza e vulnerabilità sullo sfondo glamour di Broadway, tra i bagliori di scena e gli affondi psicologici nei due protagonisti, bestie da palcoscenico rese credibilissime dalle prove attoriali di due fuoriclasse: il premio Oscar Sam Rockwell, perfetto nel restituire verticalità ad un uomo problematico e tormentato, senza scadere nella narrativa cliché dell’artista maledetto perso nella sua opera, e una virtuosa Michelle Williams impeccabile nella mimesi di energica ballerina e drammaturga eccelsa dai toni affettati e il corpo da pin-up. Ora mite eroina plasmata a immagine e somiglianza del suo Pigmalione, ora donna emancipata anni ’70 capace di ribaltare spietatamente il gioco delle parti, rivelando un’autonomia creativa nel pieno della sua maturità, oltre che le stesse egomanie del suo squilibrato consorte.

Un sapiente revival del genere musical sulla scia di successi recenti come La La Land (2016) e Bohemian Rapsody (2018). Ma soprattutto una regia vivace che si muove a intermittenza sui fili del tempo cucendo insieme passato, presente e futuro in una trama (a tratti caotica) di flashback, dove insieme a stralci di realtà si stratificano ricordi sfumati e fantasie: il nevrotico tip tap di Fosse ballerino provetto in gioventù, il delirio suicida post-Oscar musicato dai personaggi dei suoi spettacoli (apparsi in visioni allucinate da psicofarmaci), e lo show in bianco e nero in cui Bob si racconta a un audience muto, stile stand-up comedian alla Dustin Hoffman, protagonista del suo biopic Lenny (1974).

Kail imbastisce poi una narrazione episodica con marcatori temporali precisissimi – come “Washington D.C, serata d’apertura di Sweet Charity, ultimi 8 minuti”, poco prima che Fosse si accasci in strada tra le braccia di Gwen nell’ ‘87, stroncato da un infarto – una sorta di conto alla rovescia verso la morte che non smette mai di ricordarci la precarietà fisica (oltre che emotiva) del protagonista.

Proprio come fa Sam Wasson nei capitoli del suo libro, per raccontarci un uomo dall’etica feroce che nell’arte nascondeva tutte le sue debolezze, un genio col terrore costante di essere smascherato o di scoprirsi fallibile. Avvolto dalla tragedia di volersi dimostrare artista, quando quell’artista, il mondo, lo conosceva già.