Il cinema inconsumabile di Cecilia Mangini. “Il mondo a scatti” a notte fonda su Rai3
In onda nella notte di sabato 23 settembre (ore 00.25) “Il mondo a scatti”, l’ultimo titolo testamento di Cecilia Mangini e Paolo Pisanelli. Il film ha avuto la sua anteprima alla Mostra di Venezia 78 come pre-apertura delle Giornate degli Autori insieme a Isola Edipo e Bookciak, Azione! Poi è uscito in sala ed è arrivato fino al Museo degli Oscar di Los Angeles. Finalista ai Nastri d’argento 2022 …
Ci sono immagini che «pretendono di essere afferrate», afferma Cecilia Mangini nel suo ultimo film, Il mondo a scatti, realizzato con Paolo Pisanelli che ha avuto il suo debutto al Lido di Venezia, cme pre-apertura delle Giornate degli Autori in collaborazione con Isola Edipo e Bookciak, Azione! 2021.
Di immagini la fotografa e pioniera del documentario nell’Italia del secondo Novecento ne ha afferrate tante. E tante ne scorrono, nei novanta minuti di un film che non si dà definizioni rigide, tra doc, diario, (auto)biografia, saggio, esperimento. Come tutti i film di Mangini e Pisanelli, da Due scatole dimenticate – Un viaggio in Vietnam (qui citato) a Grazia Deledda, la rivoluzionaria, Il mondo a scatti è (anche, soprattutto) un film su Cecilia Mangini. Sul suo percorso, la sua personalità fuori da ogni schema, il suo tempo fatto di tanti tempi, il suo modo di vedere il reale. La sua immagine, le sue immagini.
E al centro del film c’è proprio lo statuto dell’immagine: fotografica e filmata, perché, sottolinea ancora la regista, sarebbe «un errore dogmatico» separare le due cose quando si parla della sua attività. E del resto, aggiunge, «senza immagine non esiste cinema». È il discorso intorno all’immagine che tiene unite le varie anime de Il mondo a scatti.
Quella che rievoca la storia personale e professionale della regista-autrice-protagonista. Quella che la segue ultranovantenne nei suoi spostamenti, cogliendone (anche) i tentativi di approcciarsi al mezzo digitale e l'(auto)ironia sulla riscoperta mediatica tardiva («Chissà perché sono gli anni che ho che attraggono le persone»). Quella che la interroga sul proprio vissuto, sulla realtà multiforme e in divenire che non si è mai stancata di indagare, commentare, catturare. E quella, non meno importante, che ripropone brani di film e scatti di Mangini.
Giocando in quest’ultimo caso a massimizzare il corto circuito tra linguaggi (fondamentale anche qui il montaggio di Matteo Gherardini). Fin dalla prima, straordinaria immagine, la foto datata 1956 con la folla degli uomini di Rutigliano: esempio di un modo, oggi sempre più raro, di documentare il reale. Inserendo cioè il singolo nel collettivo, nella Storia, nel “totale” (non inquadrano il «totale», rimprovera Mangini ai reporter che riprendono il corteo di lavoratori dell’ILVA).
La prima sequenza del doc scruta la foto del ’56, la frammenta, la abbraccia lentamente nel suo insieme, sulle note dell’ouverture del Barbiere rossiniano. E ci tornerà alla fine, in un brillante, sorprendente guizzo che la catapulta al tempo del Covid. Mo(vi)menti emblematici di un film che lavora con e sulle immagini (di Cecilia Mangini, della realtà) restituendone la qualità materiale, storica, e insieme il mistero quasi trascendente il loro spazio-tempo.
«Credo che l’immagine in se stessa sia un mistero», risponde non a caso Mangini a Pisanelli. Un mistero che sembra legato alla contraddizione tra il suo essere nel e del momento che la produce e il suo proiettare quel momento, quei momenti, oltre la loro finitezza e irripetibilità. Fin dalle origini, come ci ricorda il film risalendo ai disegni nelle caverne. Prime immagini di un’umanità che «non aveva il concetto dell’eternità, ma già lavorava per l’eternità», dice la regista.
E il campo semantico del mistero, del magico, del sacro tornano a più riprese nel Mondo a scatti. È un dio «quadrifronte, sestifronte» l’immagine, perché «non finisce mai di moltiplicarsi e afferrare l’attenzione delle persone». Erano gesti «sacri», «sciamanici», quelli dello stampatore nella camera oscura, il luogo più «misterioso» per Cecilia Mangini.
Ma non è un mistero o una sacralità da restaurazione dell’aura benjaminiana, da religiosità autoritaria che reprime il senso critico e cala veli sul reale (come quello imposto per legge alle donne in Iran, compresa la contrariata Mangini in visita a Teheran). La sacralità dell’immagine de Il mondo a scatti ci rimanda piuttosto al Pasolini che la regista ha fotografato e con cui ha collaborato per tre suoi doc (Ignoti alla città, Stendalì, La canta delle marane): e in particolare al concetto di “inconsumabilità” che l’autore attribuiva alla poesia, sottraendola alle leggi della mercificazione consumista: «Morirò io, morirà il mio editore, moriremo tutti noi, morirà tutta la nostra società, morirà il capitalismo, ma la poesia resterà inconsumata».
È l’inconsumabilità del lascito di Cecilia Mangini che emerge dal film: parlano, e continueranno a parlare, gli scatti della fotografa (dove lei stessa scopre nuovi significati a decenni di distanza), le sequenze della regista, il suo stesso volto inquadrato da Pisanelli. E lo faranno proprio nel loro offrirsi continuamente al discorso, allo sguardo, all’interpretazione altrui. Ridiscendendo nel mondo dove lei stessa era scesa, sfidando le convenzioni maschiliste che non ammettevano una donna filmmaker o fotografa «di strada».
Sono tanto più rivoluzionarie per questo, le immagini (e l’immagine) di Mangini, nel presente dei selfie e della realtà aumentata. Un presente che ha perso «complicità» con l’alterità del (e nel) reale, come osserva la regista sfogliando le foto delle modelle su un magazine: «Più che antifemminista, è antiumano». Quell’umano che invece trionfa nel “Mondo a scatti” della fotografa e documentarista, protestando la sua vitalità contro ogni gabbia, ogni ingiustizia, ogni richiusura autoritaria. Scene trovate nelle strade del mondo e tradotte in immagini inesauribili, irrinunciabili. Inconsumabili.
Emanuele Bucci
Libero scrittore, autore del romanzo "I Peccatori" (2015), divulgatore di cinema, letteratura e altra creatività.
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