Italiani brutti, sporchi e cattivi. Quando gli emigrati eravamo noi, tra cinema e canzoni in un libro
In libreria dallo scorso gennaio, “Amara Terra mia / io vado via” (Edizione ETS) il nuovo saggio di Stefania Carpiceci, ricercatrice di Storia del Cinema all’Università per Stranieri di Siena. Attraverso sette pellicole (dai titoli del neorealismo fino alla commedia all’italiana) e numerose canzoni della cultura popolare (con una particolare attenzione al dialetto, vera lingua degli italiani) l’autrice ripercorre le varie fasi dell’emigrazione italiana nel mondo, dall’unificazione fino agli ultimi flussi degli anni ’70…
Trenta milioni di italiani sparsi per il mondo in un secolo di storia. Una mezza nazione in fuga, fatta di mafiosi e magliari, ma anche eroi, sognatori, tanta gente normale. L’unico modo per ricordarli è cantare ancora una volta le canzoni che hanno dedicato loro. È vedere ancora una volta i film comici o tragici che hanno raccontato le loro storie. Perché quando una mezza nazione scompare, restano solo le ferite impresse nell’immaginario.
È un verso della canzone di Modugno a dare il titolo a Amara terra mia / Io vado via, libro (edizioni ETS, 2021) di Stefania Carpiceci, ricercatrice di Storia del cinema presso l’Università per Stranieri di Siena. Un saggio che ripercorre, attraverso un sentiero cinecanoro, le varie fasi di quell’epopea che fu l’emigrazione italiana nel mondo: dall’Italia post-unitaria fino all’ultima e più recente spinta che precede gli anni ’80.
Il percorso parte dalla fine della prima fase dell’esodo, conclusasi all’indomani della Prima guerra mondiale, quando gli USA pongono un freno ai nuovi arrivi, disciplinando severamente la “qualità” e il numero degli immigrati. Come ben racconta Nuovomondo di Emanuele Crialese del 2006 mettendo in scena l’odissea della famiglia Mancuso, dalla Sicilia ad Ellis Island pressati nella stiva di una nave. Storia di italiani testati per verificarne la natura non subumana o analfabeta, secondo i dettami dell’eugenetica allora di moda, mentre chi si rifiutava di sottoporsi ai test veniva rimpatriato seduta stante.
Un’integrazione difficile, turbata anche da angosce politiche nell’America anni ’20 della catena di montaggio, sospettosa verso gli italiani, soprattutto i socialisti, che fondano gazzette e si organizzano sindacalmente. Ed ecco allora quell’inno contro l’ingiustizia che è Sacco e Vanzetti di Giuliano Montaldo (1971), i due anarchici innocenti mandati alla sedia elettrica, con l’indimenticabile brano firmato da Joan Baez e la colonna sonora di Morricone, inno universale non solo contro la pena di morte.
Quando anche la frontiera americana si chiude, dopo le due guerre, è l’Europa il nuovo orizzonte per gli emigranti italiani, che però non possono più cercare una vita nuova, ma solo soggiorni temporanei: anche i sogni si sono fatti a breve termine.
È la commedia all’italiana a farsi interprete di questa seconda fase, traendo la sua comicità proprio dall’incontro/scontro tra modelli identitari opposti. L’incontro con un’altra civiltà, certo, ma anche con altri modi di intendere l’emigrazione.
Ed ecco allora il conflitto ideologico tra i gastelbeiter (gli operai) e i magliari, ne I magliari di Francesco Rosi (1959, nelle foto): la cicala e la formica. Il Sordi istrione, venditore ambulante/truffatore, che comunque un modo per campare lo troverà sempre ovunque, e il Salvatori lavoratore onesto, che torna in Italia senza una lira piuttosto che fare il mantenuto della sua ricca amante tedesca. E forse anche un terzo modello, quello del mafioso alla don Raffaele, sempre pronto a farsi sfruttatore dei suoi connazionali.
Sfruttato più che sfruttatore è invece il Nino (Manfredi) di Pane e cioccolato di Franco Brusati (1974). Una vera e propria parabola degradante la sua: emigrante in Svizzera, lentamente scivola da cameriere a guardiano dei polli, fino alla vera e propria rimozione identitaria della tinta bionda con cui colora i capelli nel tentativo di mimetizzarsi tra gli “ariani”. Senza più permesso di lavoro è costretto a rimpatriare, ma poi, sul treno, non regge all’ennesimo stomachevole Torna a Surriento intonato da un napoletano e così si lancia dalla carrozza per tornare indietro. Perché alle volte, all’italica filosofia del “canta che ti passa”, bisogna anche saper sostituire una sana incazzatura. Come sottolinea il regista: “Sui problemi si canta, anziché tentare di risolverli. A me l’autopietismo sterile, il genio italico che risolve tutto in canzonetta, e il folklore basato sul nulla danno il voltastomaco.” Altri modi di intendere il distacco dall’Italia, e l’italianità.
Ma l’aspetto forse più doloroso dell’emigrazione italiana è il caso dell’emigrazione interna, quella in direzione Sud-Nord, con il paradosso del razzismo tra connazionali, dei dialetti usati come scudi e clave (per non farsi capire dal “terrone” che cerca casa e viceversa): i mancati “permessi di soggiorno” e la clandestinità all’interno del proprio stesso paese.
È la storia dei minatori siciliani ne Il cammino della speranza di Pietro Germi (1950). Road movie neorealista che non disdegna di ibridarsi col genere, tra romantiche liaison e duelli rusticani al coltello. Dopo il fallimento della miniera, attraversano la penisola in direzione della frontiera con la Francia, costretti alla clandestinità perché privi di un foglio di via. Emigranti verso la Francia, immigrati nella propria nazione.
Uomini e donne mossi dal desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita (il famoso carico di lupini di verghiana memoria) ma che trovano la rovina, perché spesso il sogno, americano o del Boom, non è per tutti. E così è in Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti (1960): l’incontro con quel mondo altro, per un contadino lucano, che è la Milano del Boom, genera traumi profondi. E Simone e Rocco, accecati dall’ambizione materna di arricchirsi attraverso la boxe, si trasformano in maniera patologica al contatto con la nuova realtà. Con Simone sempre più individualista e sbandato, e Rocco, talmente buono e disposto al sacrificio verso il fratello, oramai criminale, da trasformarsi in un ottuso agente diabolico, secondo il famoso paradosso del principe Myškin ne L’idiota di Dostoevskij.
Mostri generati dallo shock del confronto con modelli identitari e lingue diverse: come il trauma dell’incontro col dialetto torinese in Così ridevano di Amelio (1998). Un trauma che trasforma Giovanni, ingenuo operaio analfabeta siciliano, prima in un cinico sfruttatore dei suoi corregionali, e poi in un omicida, redento ancora una volta dal fratello minore, Pietro, che si autoaccusa dell’assassinio e permette al maggiore di sposare la sua fidanzata torinese.
Un’avvenuta integrazione, questa, sancita dalla nascita di Pietro junior, figlio della coppia, rampollo di questa novella famiglia siculo-piemontese in cui però, permane ancora qualche dubbio sull’igiene intima dei meridionali (sono i suoceri torinesi che durante il pranzo di battesimo fanno insinuazioni).
A ribadire ulteriormente che le questioni aperte sono ancora tante, nonostante l’apparente felice conclusione dell’epopea.
Marco Mammarella
Aspirante scrittore e sceneggiatore. Ha scritto "Pari", cortometraggio prodotto da CSC Production e "Genealogia del guerriero", racconto dell'antologia, "Ideobook" (edizioni Ideostampa, 2020)
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