La diva che ha inventato il divismo. Francesca Bertini rivive in una biografia (quasi) di famiglia

In libreria per Fazi editore “L’ultima diva” romanzo di Flaminia Marinaro basato sulle testimonianze della stessa diva del muto, amica di famiglia. Nonostante una carriera cinematografica assai breve, il mito del suo fascino si è protratto per decenni, creando attorno a lei un alone di leggendario mistero paragonabile solo a quello di Greta Garbo. Per lei fu coniato nell’accezione moderna il termine “diva”. Una biografia in cui forse non tutto corrisponde al vero, ma sicuramente a come lo raccontava lei, da donna determinata a lasciare un segno indelebile …

Passionale e fatale, assoluta e straziante, torbida e tentatrice: questo era il personaggio incarnato da Francesca Bertini, la nostra prima diva incontrastata del cinema muto, negli anni dieci del ‘900 e nel primo dopoguerra, nata Elena Saracini Vitiello (1892 – 1985), figlia adottiva di Arturo, trovarobe napoletano, e di Adelaide, attrice di prosa fiorentina, anche se lasciava intendere più altolocate ascendenze.

Riuscì a coniugare fantasmi dannunziani e verace naturalismo, si distinse per le sue pose e le sue elaborate toilettes e la sua teatralità influenzarono legioni di imitatrici. Nonostante una carriera cinematografica nel complesso assai breve, il mito del suo fascino si è protratto per decenni, creando attorno a lei un alone di leggendario mistero paragonabile solo a quello di Greta Garbo.

Abile nel costruire la propria immagine e con la capacità di imporre la propria presenza in scena fu una precorritrice dello star system e per lei, nel 1915, fu coniato nell’accezione moderna il termine “diva”. A quei tempi bastava appendere davanti a una sala la scritta «Stasera Bertini» e la gente accorreva senza neanche conoscere il titolo del film.

Viene ora a ripercorrere l’ascesa di Francesca Bertini, per Fazi editore, L’ultima diva (187 pp., 18 euro) primo romanzo della giornalista, esperta di moda e di cinema, Flaminia Marinaro. Basata sulle testimonianze, su una ricostruzione fatta dai racconti diretti della Bertini, amica di famiglia, “madrina di mia sorella e riferimento affettivo per noi”, che “veniva a trovarci quasi tutte le domeniche e condivideva molto della sua vita con noi”.

È una biografia in cui forse non tutto corrisponde esattamente al vero, ma sicuramente a come lo raccontava la diva, da donna determinata a lasciare il segno e a diventare l’icona di un’intera generazione. E ancora nelle interviste dei suoi 80 anni, quando Bernardo Bertolucci la volle per una rentrée nel suo Novecento nel cameo di suor Desolata, raccontava gli inizi quando il cinema italiano si inventava e lei inventò se stessa.

Novantenne, abitava in un minuscolo appartamento prestatole da un’amica, ma riceveva ancora al Grand Hotel per il tè del pomeriggio, profumata, ingioiellata, lo sguardo reso affilato dalle lunghissime ciglia finte a contrasto con le piume bianche che l’avvolgevano come in una nuvola; narrava con umorismo del divismo che aveva inventato, restando diva fino all’ultimo. «Il tè del Grand Hotel era il suo stare in palcoscenico, la recita continua del suo ruolo di Divina» ha riconosciuto con affettuosa indulgenza il critico Gianluigi Rondi.

Fu sulle scene fin dall’adolescenza con il nome d’arte di Franceschina Favati e di Cecchina Bertini, e recitò con alcune compagnie di prosa fra cui quella di Eduardo Scarpetta, formandosi alla scuola del teatro verista e vernacolare. Fu proprio Scarpetta a predirle la celebrità, “perché gli animali da palcoscenico si riconoscono fra loro”.

Esordì nel cinema posando nel 1908 per il film amatoriale La dea del mare di Salvatore Di Giacomo; notata in teatro da Gerolamo Lo Savio, che aveva appena costituito con Ugo Falena la Film d’Arte Italiana, in due anni interpretò come prima attrice una ventina di lungometraggi, a partire da Il trovatore (1910).

«Ho girato più di 100 film con la mia faccia acqua e sapone: noi ci truccavamo con un fiammifero che strofinavo così, sotto un piattino, veniva fuori il nero e con questo nero facevo così sopra gli occhi, perché io ero troppo giovane per fare la donna fatale, avevo 18, 17 anni lei capisce… Poi un po’ di rosa alle labbra e nient’altro» raccontò in un’intervista.

Ottenne poi un enorme successo in Assunta Spina (1915), pregevole esempio di realismo napoletano diretto da Gustavo Serena e da lei stessa; nel ruolo della protagonista, una donna sfregiata per amore molesto, rivelò spiccate qualità drammatiche e una recitazione misurata, di una naturalezza sorprendente per un’attrice passata alla storia e poi al mito per i suoi eccessi teatrali e decadenti ‒ tanto che “bertineggiare” divenne un’espressione corrente per alludere a gesti di disperazione plateale.

«Era così esaltata dal fatto di interpretare la parte che era diventata un vulcano di idee, di iniziative, di suggerimenti. In perfetto dialetto napoletano, organizzava, comandava, spostava le comparse, il punto di vista, l’angolazione della macchina da presa; e se non era convinta di una certa scena, pretendeva di rifarla secondo le sue vedute».

Nella sua pur breve carriera aveva guadagnato quattro milioni di lire dell’epoca. In quegli anni i giornali americani scrissero che i due attori più pagati al mondo erano Francesca Bertini a Roma ed Enrico Caruso in America, “un paragone che non fecero certo per la voce, campo in cui lasciavo molto a desiderare» ha raccontato in una intervista Rai a Lelio Luttazzi: non le riusciva di dominare la voce roca e gutturale, tanto da costringere i produttori a doppiarla in Odette (1916), suo secondo film sonoro, divenendo così la prima attrice italiana ad essere doppiata nella sua stessa madrelingua.

Nel 1918, ormai potente, capricciosa e milionaria, fondò la Bertini Film, per produrre e interpretare fra l’altro, nel 1920, la serie di I sette peccati capitali, che vennero maltrattati dalla critica e trascurati dal pubblico. L’8 agosto 1921 sposò il conte e banchiere svizzero Paul Cartier rinunciando alla carriera e a un contratto di un milione di dollari con William Fox, deciso a portarla a Hollywood.

Il matrimonio era per lei, come per altre attrici, una sorta di punto di arrivo ma anche di fine carriera. Lasciò il cinema quando era all’apice del successo e mai confessò ripensamenti, anzi di fronte alle telecamere negli anni Sessanta ricordò, un po’ sorniona: «Mi sono sposata improvvisamente e mio marito non ha voluto che io tornassi al cinematografo. A quell’epoca le mogli non si facevano lavorare».