La fantascienza malinconica in loop. Dai disegni di Stålenhag alla serie tv (Amazon)

“Tales From the Loop” (su Amazon Prime Video) è la serie tv ideata da Nathaniel Halpern, tratta da un libro di figure, “The Loop” (Oscar Mondadori Ink), dell’artista svedese Simon Stålenhag. Un libro di illustrazioni con scarsi testi che muovono suggestioni spiazzanti. Così come questi otto episodi sostenuti da una dolente malinconia di fondo. Da vedere e rivedere a ciclo continuo, come un Loop …

Le figure parlano, anzi raccontano. Sono capaci di suggerire storie da scrivere e da far muovere. È successo con questa magnifica serie tv, Tales From the Loop (su Amazon Prime Video), ideata da Nathaniel Halpern e tratta da un libro di figure, The Loop (Oscar Mondadori Ink), dell’artista svedese Simon Stålenhag (qui il suo sito).

Un libro di illustrazioni con scarsi testi, poco più di didascalie, che muovono suggestioni, spiazzanti come sono nell’ambientare in panorami rurali, reperti e oggetti «alieni»: imponenti torri, scheletri metallici, sfere arruginite che sembrano navicelle Vostok rientrate a terra, robot in stile retrofuturista dalle meccaniche cigolanti.

Il Loop è un anello che sta sottoterra, forse un gigantesco acceleratore di particelle (nella serie tv siamo nelle campagne dell’Ohio) dove lavorano gli abitanti di una cittadina immersa nella campagna. Ogni mattina vanno a lavorare lì sotto dove si conducono esperimenti non meglio precisati.

Potrebbe sembrare di essere dalle parti della fantascienza nostalgica di Strangers Things (altra celebre serie tv): pure in quel caso c’è un misterioso laboratorio dove avvengono strani esperimenti ai confini della realtà. E Tales From the Loop, è più apparentabile proprio alle stagioni televisive dell’indimenticata Twilight Zone (Ai confini della realtà) di Rod Serling. Ma se è il tono che fa la musica, questa serie è davvero un’altra musica.

Otto episodi autonomi che non scatenano la febbre da bing watching, anche se i personaggi che li animano attraversano le singole puntate, passando da comprimari a protagonisti e viceversa. E che cuciono i pezzi di una tela sfaccettata come un patchwork ma tessuta con un unico e prezioso filo. Che è quello delle emozioni e dei sentimenti, dell’empatia e della nostalgia per quello che è stato o quello che poteva essere. Ricordi, desideri, aspirazioni e i loro opposti: smemoratezze, apatie, delusioni generate dall’impossibilità dell’avverarsi. Anche se il Loop promette, nelle dichiarazioni del suo direttore (interpretato da Jonathan Price), di rendere possibile l’impossibile.

E le storie? (accenni di spoiler)

C’è una bambina che trova una strana pietra e perde la casa e la mamma; la ritroverà nel futuro: ma sarà proprio lei?
Ci sono due amici che entrati per gioco in una misteriosa sfera si ritroveranno «scambiati», l’uno nel corpo dell’altro e proveranno a vedere che effetto fa vivere una vita altra.
C’è una ragazza che sogna che l’innamoramento duri in eterno, facendo fermare il tempo in quell’attimo fuggente.
C’è un ragazzino e il suo nonno che scoprono quanto durerà la loro vita. E non sarà una bella sorpresa.
C’è un padre ansioso e guardingo che tenta di proteggere la propria casa e la figlioletta dalle minacce esterne «assoldando» un vecchio robot.
C’è un guardiano del Loop che sogna un amore gay. Salta in un’altra dimensione e finalmente corona il suo desiderio, ma…
C’è un ragazzino in un’isola deserta alle prese con un misterioso mostro (con un omaggio a La maschera del demonio di Mario Bava).
C’è un epilogo che sembra riconnettere tutti i fili del tempo e delle vite, attraverso la storia del piccolo Cole.

Tales From the Loop è sostenuto da una dolente malinconia di fondo, da uno spleen che la magnifica fotografia (panorami vasti, campi lunghi, dettagli minuziosi e un ritmo lento ed estatico alla Terrence Malick); i diversi tocchi registici (da Mark Romanek a Andrew Stanton, fino a Jodie Foster che firma l’epilogo); un cast di attori sobri e azzeccati (Rebecca Hall, Paul Schneider, Alto Essandoh e lo straordinario Duncan Joiner che interpreta il piccolo Cole); più la limpida ma insinuante colonna sonora di Philip Glass e Paul Leonard-Morgan contribuiscono a costruire. Da vedere e rivedere a ciclo continuo, come un Loop.