La Grande Mela del vecchio Woody. Leggendo a “A proposito di niente”

Mentre il nuovo film di Woody Allen, “Rifkins’ festival”, aprirà il Festival di San Sebastian il 18 settembre (è girato nella città basca dove si svolge l’importante kermesse) vi proponiamo una lettura della sua ultima (e contestata) autobiografia, “A proposito di niente” (La Nave di Teseo, 2020) incentrata sulla passione per la sua città: New York. Un amore, quello sì, lungo tutta la vita …

Molti di noi hanno iniziato ad amare New York City grazie ai film di Woody Allen. Se pensiamo al classico skyline di Central Park, visto dall’Upper East Side, come non riconoscere l’edificio a set back chiamato The Beresford, visto e rivisto sia in Manhattan (1979), sia in Hannah e le sue sorelle (1986)?

L’ottantacinquenne regista nella sua autobiografia, A proposito di niente (La Nave di Teseo, 2020), si narra con humour così come l’abbiamo imparato ad apprezzare nei suoi film, ma senza fare sconti e talvolta anche con durezza.

La prima parte tratta della sua infanzia passata a Brooklyn e ci sembra di conoscerla già. Allen ce l’ha già raccontata molto bene in Radio Days nel 1987 e, a distanza di trent’anni l’ha fatta rivedere in Café Society (dove inizia la collaborazione con Vittorio Storaro, e con Santo Loquasto). Nel primo film sono mostrati i luoghi dell’infanzia ed è ben ricostruito il clima urbano del borough di quegli anni. Nel secondo è sottolineato il milieu d’origine del regista e cioè una piccola borghesia ebraica, nel periodo subito dopo il maccartismo.

Allan Stewart Königsberg, il vero nome del regista, è nato a Brooklyn il 1° dicembre del 1935, primogenito di Nettie Cherry e Martin, un padre che si ingegnava in lavori vari sempre diversi (dal tassista all’allibratore) dopo il tracollo finanziario del nonno. Con Rita, la cuginetta più grande, Woody andava al cinema; lei era un’appassionata e «tappezzava le pareti di camera sua con foto a colori di Modern Screen”, rotocalco anni 50 dedicato alle star del cinema.

 

Cresce lì in Avenue J frequentando malvolentieri la scuola, ma giocando a baseball e a tennis (Woody Allen sportivo??? Chi l’avrebbe mai detto!!). Studente distratto Woody è un lettore di fumetti (Batman, Superman, Flash Gordon, Hawkman, Namor) e si interessa ai libri solo quando qualche ragazza intellettuale cita Dostojevski o Kafka.

Le musiche popolari che si ascoltavano all’epoca alla radio erano di Cole Porter, Rogers & Hart, George Gershwin o Benny Goodman. Da lì è nato il suo amore per il jazz e la passione per il clarinetto che l’accompagneranno fin qui.

Ma il suo sogno, come per Tony Manero ne La febbre del Sabato sera anche se per ragioni diverse, è quella di andare a vivere a Manhattan, in un attico. E come dargli torto?

«Questi appartamenti erano enormi, in genere duplex, con tanto spazio vuoto… – scrive – . Tutti bevevano in continuazione e nessuno vomitava. Nessuno aveva il cancro, i tubi non perdevano e, se squillava il telefono nella notte, gli abitanti degli attici di Park Avenue non brancolavano nel buio come mia madre rischiando di rompersi una gamba per cercare l’unico, nero apparecchio di casa e venire a sapere che magari un parente era appena passato a miglior vita. No. Katherine Hepburn, Spencer Tracy, Cary Grant o Myrna Loy allungavano un braccio sul comodino, dove il telefono era solitamente bianco, e le notizie non riguardavano metastasi, trombosi coronariche frutto di anni di cibi con troppo colesterolo, ma dilemmi di soluzione più immediata, tipo: “Prego? Cosa vuol dire che il nostro matrimonio non è valido?”».

Il film dove è palesemente rappresentata la buona borghesia di Park Avenue tanto sospirata dal regista è Hannah e le sue sorelle del 1986 (che portò a casa tre Oscar). Qui sono presenti tutti i “luoghi” dell’Upper East Side, dai café alle librerie frequentate da coloro che amano il jazz “in small doses”, come asseriva Fats Waller nel suo musical Ain’t Misbehavin

Woody Allen si sente a disagio nella natura, odia la campagna e la assolata costa orientale. In Io e Annie (1977) è narrata l’evoluzione della storia d’amore tra una giovane del Mid-West e il newyorkese Alvy Singer sullo sfondo di “cartoline newyorkesi” degli anni Settanta.

Famose sono le scene con lo sfondo dei ponti. Mentre in Manhattan la coppia à seduta su una panchina di fronte al Williamsburg Bridge, in Io e Annie i protagonisti sono di fronte al ponte di Brooklyn e subito dietro è il Manhattan Bridge. Il ponte simboleggia la porta d’ingresso che conduce al successo, al cuore della città; si pone come “mura metaforiche” che nelle città europee separano il centro storico dalla città moderna e dalla periferia. Quando Alvy accompagnerà Annie Hall in California per un provino, starà male per tutto il tempo. Il mito di Hollywood e della celebrity culture, attrae molta parte della popolazione statunitense, è il “luogo” della ricchezza per antonomasia, mitopoietico e costruttore dello star system. Dopo questa infelice esperienza i due si separeranno per sempre.

Woody Allen adora Manhattan anche in autunno e quando piove e su queste luci particolari costruisce il suo ultimo film, Un giorno di pioggia a New York del 2019. Attraverso gli occhi di una giovane coppia formatasi al college si riscontra tutto il fascino della New York vecchia generazione.

Il giovane protagonista (Timothée Chalamet), vuole essere un Woody giovane, un po’ demodé, innamorato della sua città e dei suoi valori culturali. I due decidono quindi di passare un intero week end nella Grande Mela, da soli, senza neanche dirlo ai genitori. Lui viene da una famiglia di intellettuali – la madre è una donna dall’educazione un po’ rigida – conosce la musica, suona il pianoforte e vuole mostrare alla sua ragazza i locali “giusti”; amando l’arte la vuole portare a vedere una mostra al MOMA. Lei, da brava provinciale, è sicuramente eccitata all’idea di andare a Manhattan, anche se sembra sia più entusiasta dell’idea che della reale possibilità di conoscere a fondo la Grande Mela.

Leggendo questa appassionante autobiografia viene voglia di rivedere tutti i film alla luce dei suoi racconti, dalla scelta degli attori al montaggio, ma anche e soprattutto di ritornare a New York vissuta come massima espressione della cultura occidentale.