La periferia anno zero dei fratelli D’Innocenzo. Tra Kechiche e il noir

In sala dal 7 maggio (per Adler Entertainment) “La terra dell’abbastanza” di Damiano e Fabio D’Innocenzo, già passato alla Berlinale. Mirko e Manolo, la parabola di due giovani romani che entrano in un clan e diventano sicari: la ricostruzione della lingua di borgata diviene esercizio di genere, in una Ponte di Nona noir da cui non si esce vivi. Da non perdere…

Periferia di Roma. Uno spazio frequentato, rappresentato, usurato. E anche uno stato d’animo. Difficile, oggi, dire e mostrare ancora qualcosa. Dopo Pasolini, Walter Siti e Caligari, i nomi citati in automatico in un riflesso pavloviano. E dopo Lo chiamavano Jeeg Robot, che lì installa il supereroe, azzarda il film Marvel di borgata. E dopo Dogman, che invece astrae la periferia, la ritrova in un altro luogo (Castel Volturno) e rende concettuale in uno scenario post-atomico da pioggia acida. E dopo molti altri. Ci prova, ancora e con tenacia, La terra dell’abbastanza di Damiano e Fabio D’Innocenzo, in sala dal 7 giugno, già presentato all’ultima Berlinale nella sezione Panorama.

Ma non è il solito film di periferia. La zona è nettamente connotata, il quartiere romano di Ponte di Nona. I personaggi anche: Mirko e Manolo (Matteo Olivetti e Andrea Carpenzano, entrambi impeccabili), amici da sempre, studenti all’alberghiero, famiglie povere, che vogliono diventare barman.

Una notte avviene il pasticcio: mentre stanno tornando a casa investono una persona, la uccidono, al volante c’è Mirko ma il fatto viene compiuto insieme. Il padre di Manolo, un irriconoscibile Max Tortora, al posto della presa in carico stabilisce l’esatto contrario: si tacerà dell’incidente, andranno a scuola come se niente fosse.

La sua figura coltiva il negativo della responsabilità: l’iniziazione al mondo criminale, attesa e voluta, viene accolta come una svolta. Quando scoprono che la vittima dell’investimento è il membro traditore di un clan, allora la strada diventa in discesa: Mirko e Manolo possono entrare nella gang, farsi assoldare dal boss Luca Zingaretti che commissiona omicidi. Diventare sicari.

I fratelli D’Innocenzo operano un lavoro sul linguaggio peculiare e parzialmente inedito, almeno nel cinema commerciale: da subito Mirko e Manolo si esprimono così come sono, caricano la lingua per farla plausibile, rispondono non a un’esigenza di vendibilità narrativa ma al dettato della verità grammaticale.

All’inizio Mirko bestemmia. Quando parlano tra loro i ragazzi attingono al gergo, dunque, ma non quello solitamente rappresentato all’unanimità (e tutto sommato comodo) bensì i termini che sono davvero nelle strade (frocio, negro, fammi un bocchino, sono alcuni esempi). I registi provano a fare ciò che aveva realizzato, con profonda maestria filologica, il Kechiche de La schivata applicandolo ai margini della metropoli francese (indefinita, ma era Parigi), quando i giovani banlieusards recitano un vangelo di parolacce – quasi musicale, come una filastrocca – ogni volta che parlano tra loro. Così La terra dell’abbastanza, che nel linguaggio vuole essere credibile e quindi disturbante.

L’operazione accurata, che parte dal realismo, diventa poi lo sfondo per intavolare un discorso di genere, ovvero il noir. È noir l’entrata dei ragazzi nella banda, infatti, così come eminentemente noir sono le missioni assegnate dal boss, che gradualmente lascia emergere la loro funzione strumentale di pedine, in mano al sottobosco criminale, pronte a essere sacrificate. Mentre Mirko e Manolo sono logorati da sotterranei dubbi etici, mai enunciati in superficie, da noir è anche il loro avvitamento in tragedia perché – ovviamente – qui non c’è redenzione. L’avanzare della fine è già segnata nel contesto, chi alza la testa dal degrado trova solo la morte: come un Olivier Marchal a Ponte di Nona.

Nell’esercizio di genere la scrittura dei fratelli diviene più automatica, nutrita di doppi meccanici (i due genitori, un padre a una madre, agli opposti) e alcuni squarci votati all’esplicitazione pleonastica di ciò che è già contenuto nell’immagine (il monologo di Mirko in lacrime).

Resta il merito di questo esordio che ravviva il banale, e così costruisce il punto di partenza nel percorso degli autori: la loro consapevolezza dell’ineluttabile si ritrova nel tramonto sempre uguale, inquadratura dall’alto ripetuta in loop, esattamente come i discorsi finali da bar (un giro alla slot, cosa fare per cena). La chiusura segna il ritorno a una routine, l’unica possibile, perché dalla periferia vivi non si esce.