La prima volta in fabbrica di Cecilia Mangini. “Essere donne”, un doc manifesto

Di seguito un’intervista a Cecilia Mangini pubblicata su l’Unità, il 5 febbraio 2002 , dedicata ad “Essere donne” il suo doc manifesto in cui nel ’64 ha raccontato la condizione femminile tra lavoro e famiglia, denunciandone lo sfruttamento al di là del luccichio del boom economico. Un film che ha fatto epoca, commissionato allora dal PCI per una campagna elettorale …

Per anni è stato il film dell’8 marzo. Come Allarmi siam fascisti! è stato il film del 25 aprile. Qesto, almeno, finché esistevano i circuito cosidetti della “controinformazione”. Stiamo parlando, infatti, di un documentario diventato in qualche modo un manifesto del movimento delle donne. Non fosse altro perché, allora, i temi del lavoro femminile, dello sftuttamento, del peso della famiglia erano argomenti troppo scomodi per l’Italia democristiana che stava vivendo l’euforia del boom economico. E doveva ancora conoscere le grandi battaglie del femminismo.

Perché è di questo che parla Essere donne di Cecilia Mangini, regista e sceneggiatrice che ha vissuto la stagione della “militanza cinematografica” attraverso i film inchiesta. Quella degli anni Sessanta, segnata dai nomi di Nelo Risi, Mingozzi, Ferrara, Vancini, Giannarelli – solo per farne alcuni -. E, ancora, Lino Del Fra, suo compagno nel lavoro e nella vita, col quale, insieme a Lino Micciché, ha firmato lo storico Allarmi siam fascisti!, rimasto a lungo impigliato nelle maglie della censura.

Ora Essere donne torna alla luce dello schermo grazie ad un difficile restauro realizzato dall’Archivio del movimento operaio e democratico, curato da Guido Albonetti. Che riporta l’attenzione su quel cinema puntato sulla realtà che ha avuto in Zavattini uno dei padri più illustri.

Proprio da lì parte il lavoro di Cecilia Mangini, come racconta lei stessa. Dalla Ficc, la Federazione dei circoli cinematografici “nella quale entrai intorno ai vent’anni – racconta -. Allora per noi autori di sinistra, il culturame, come ci definiva Scelba, occuparci dei problemi sociali era naturale. Esisteva la militanza, una delle tante parole che oggi non ci sono più. E soprattutto esisteva l’indignazione di fronte all’ingiustizia. Perciò il documentario, grande palestra per tutti i registi, era il nostro mezzo. Le difficoltà poi c’erano comunque. In quegli anni la legge prevedeva i premi qualità e l’obbligo di programmazione nei cinema. Solo che i documentaristi legati alla DC vedevano abbinati i loro film a campioni d’incasso, tipo Gilda. Mentre a noi di sinistra ci programmavano insieme a pellicole di scarso richiamo”.

Questo tanto per descrivere il clima, sottolinea Cecilia Mangini. “Pasolini era sotto tiro del governo Tambroni – prosegue -, Andreotti diceva che i “panni sporchi si dovevano lavare in famiglia”. Oscar Luigi Scalfaro si poteva permettere di redarguire pubblicamente una donna, secondo lui, troppo scollata. E in tutto questo la commissione censura faceva la parte del leone”.

Ma intanto Cecilia Mangini, come tanti suoi colleghi, andava “in giro per periferie”, armata di cinepresa. Da qui nascono La canta delle marane e Ignoti alla città, spaccati poetici di emarginazione giovanile su testi di Pier Paolo Pasolini che, ovviamente, suscitarono le ire ella censura, tirandosi dietro il divieto ai minori di 18 anni.

Poi arrivò Essere donne. “L’idea di entrare in fabbrica – racconta la regista – era il mio sogno. Ma quale produttore me lo avrebbe mai permesso, nonostante i finanziamenti pubblici?”. L’occasione si presenta nel ’64, quando per le elezioni l’Unitelefilm chiama a raccolta i registri di sinistra per la campagna elettorale.

“Mi ricordo ancora – prosegue – il mio incontro a Botteghe Oscure con Luciana Castellina. Lei mi dà libertà assoluta per girare il mio film sul lavoro femminile, un argomento che a sinistra cominciava finalmente a farsi strada”. Ne viene fuori un racconto corale tra le braccianti del Sud, le operaie delle fabbriche del Nord, i tempi inumani della catena di montaggio, la fatica della terra. E, soprattutto, il peso della casa e della famiglia”.

“Per girare in fabbrica – ricorda ancora – dicevamo di essere della Rai e immediatamente ci aprivano i cancelli. Soltanto alla Sit-Siemens, Marisa Belisario, manager simbolo dell’impresa al femminile – ci bloccò. Forse non voleva che le nostre cineprese riprendessero il suo sistema per tagliare i tempi di lavoro alle operaie che dovevano andare in bagno: uno sciacquone a tempo che concede a chi usa il water soltanto tot secondi e non più”.

Rusultato, Essere donne iniziò a circolare e fece scalpore. Raccolse riconoscimenti anche all’estrero – Jori Ivens lo premiò al Festival di Lipsia – ma non ottenne il premio qualità in patria. “Mi ricordo – prosegue Cecilia Mangini – quando lo vide Nilde Iotti. Mi disse: “È veramente un docuentario girato da una donna…”. Poi precisò, come nel sottolineare che nel dire donna non ci fosse nessun intento di sminuire il lavoro: “si sente che le operaie sono state avvicinate da una sensibilità femminile”.

Oggi, comunque, Cecilia Mangini è convinta che il femminismo non sia morto. “Con lentezza angosciosa il suo dna è entrato in circolo. Anche se ne manca la consapevolezza. Tanti obiettivi sono stati raggiunti, seppure le ragazze di oggi non sanno a quale prezzo sono state ottenute certe conquiste”. Come quella della legge sull’aborto, per esempio. Minacciata proprio di questi tempi dalla nuova richiesta di papa Wojtyla di riconoscere la personalità giuridica all’embrione.

“La linea d’assedio contro la donna – conclude la regista – si è trasformata ora in una pericolosa strategia d’attacco che mette in pericolo tutte le conquiste fatte. Davanti alla quale non bisogna farci trovare impreparate. Insomma, bisogna riesumare la consapevolezza degli anni delle battaglie e, come dice Borrelli, resistere, resistere, resistere”.