Quelli che la rivoluzione… ci hanno provato. Ricordando Marco Ferreri, in un doc

In sala dal 30 novembre (per Cinedea), “I Love… Marco Ferreri” doc di Pierfrancesco Campanella dedicato al regista più irregolare, anarchico e dimenticato del nostro cinema, a vent’anni alla sua scomparsa. Un viaggio attraverso il suo cinema, tra i suoi film e i ricordi di chi l’ha conosciuto: Michele Placido, Piera Degli Esposti, Orio Caldiron, Franco Mariotti, tra gli altri…

Quanto ci manca un Marco Ferreri! Qualcuno capace di andare in controcanto col resto, ordinato ed industriale, della produzione cinematografica nazionale! E quanto manca al cinema italiano!

Marco Ferreri (Milano, 11 maggio 1928 – Parigi, 9 maggio 1997): segno del toro, visionario, matto, grottesco, precursore, fantascientifico, anarchico, geniale, provocatorio, apocalittico, libero, laico, isolato, introverso, controverso, un poco maledetto e infine… dimenticato.

Ci ha lasciati 20 anni fa ed è ora, in fin dei conti, proprio il grande dimenticato del nostro cinema. Basta dare un’occhiata alla sua ricca e depistante filmografia e riflettere su quanto poco sia citato, ricordato, studiato per rendersene immediatamente conto.

Ecco allora il primo merito di Pierfrancesco Campanella, presenza costante e vigile del nostro cinema, e di questo suo appassionante ritratto di Ferreri intitolato, I love… Marco Ferreri: analizzare cioè questa sorta di rimozione e, nel farlo, consentirci di rinfrescarci le meningi non meno che affrontare un doveroso e laico mea culpa.

Sulle tracce di questa misteriosa “scomparsa” del maestro Marco Ferreri, ossia per scoprire le ragioni di detto “oblio”, Pierfrancesco Campanella invia un detective d’altri tempi, alla Marlowe, che tenta di compiere una inchiesta molto personale e poco ortodossa.

Il detective chiederà conto ed aiuto anzitutto a chi lo ha studiato, o a chi lo ha conosciuto e lavorato con lui: Michele Placido, Piera Degli Esposti, Orio Caldiron, Franco Mariotti, Fabio Melelli, Mario D’Imperio, Emanuele Pecoraro. Ognuno fornirà ricordi, argomenti, analisi. Ognuno però sarà in grado solo di fare infittire la trama del mistero, con notizie sempre più di riguardo, che parlano delle grandi capacità di Ferreri. Ed allora, ovvio, ancora una volta tornerà il refrain: come abbiamo fatto a dimenticarci di Marco Ferreri, e così in fretta?

Come abbiamo fatto a fare a meno dei suoi richiami ai danni, evidenti o meno, della società dei consumi (la sovrabbondante grande abbuffata, 1973, ma anche il tenero El Cochecito, 1960)? Com’è che abbiamo rinunciato alle sue riflessioni crude sulla cangiante borghesia, o sulla misoginia, o sul rapporto tra uomo e donna (L’harem, 1967, Ciao maschio, 1978, Il futuro è donna, 1984)? O ancora sulle guerre, sulla globalizzazione, la distruzione degli spazi urbani e sulle loro vittime (“Come sono buoni i bianchi”, 1987, Non toccare la donna bianca, 1974)?

Come abbiamo fatto a non pensare più alle sue teorizzazioni fantascientifiche e fanta-sociali sul futuro già allora incerto dell’umanità (Il seme dell’uomo, 1969)? A dimenticarci della necessità sempre più quotidiana che abbiamo di rintanarci, per proteggerci, nella fantasia, come accade a Benigni in Chiedo asilo, 1979, o anche, cambiando del tutto registro, coi tempi del nouveau roman, in Dillinger è morto, 1969, con Michel Piccoli? O alle constatazioni liminari sull’infinita solitudine umana come accade ne La cagna, 1972, tratto da un racconto di Ennio Flaiano.

Dentro e fuori la contestazione (il bellissimo Perché pagare per essere felici?, 1971, sul fenomeno hippy, ma anche il già ricordato e catastrofico Il seme dell’uomo), borghese e rivoluzionario (L’ape regina, 1963, e ancora l’ambiguo Dillinger), anticipatore ed ancorato alle tradizioni (I love you, 1986), sempre fuori dagli schemi, Marco Ferreri si è ricavato un suo spazio con la forza della sua originalità quando i protagonisti del cinema italiano si chiamavano Fellini, Petri, Pasolini, Bertolucci, Antonioni, Visconti, De Sica, Lizzani, Germi, Olmi, Zurlini, Scola e non concedevano certo facilmente terreno a comprimari.

Difficilmente etichettabile, una testa calda, una scheggia felicemente impazzita Ferreri non si è ancora consumato: il suo cinema, ricco di allusioni e allegorie, in gran parte mantiene una ancora intatta ricchezza provocatrice.

Dalle parti di Bunuel, nelle zone del realismo magico d’impronta sudamericana, è nato un personaggio unico e prezioso, un rompiscatole gioioso, capace di far diventare i 90 minuti circa di un film un atto politico e d’amore, ma intriso di un pessimismo difficile da mandare giù. E forse per questo non ancora digerito.

Ecco: con Ferreri c’è da scordarsi del cinema pacificatorio ed happy endings, “il cinema alla lunga non serve a niente” (intervista a Cinema & Film, primavera 1969), al limite “solo” a ritrovare la propria coscienza sperduta da qualche parte, nascosta tra cumuli di domande cui nessun film può dare risposte. Bisogna affogare nel nichilismo, oppure… : “Oppure smettere per un momento di fare il cinema e cercare di fare la rivoluzione; questi sono i due sistemi. E la rivoluzione si fa facendo la rivoluzione, non facendo i film” (idem). Così parlò Marco, il maestro.