“Happy End”, il fascino ridicolo della borghesia. E del nostro presente

In sala dal 30 novembre (per Cinema), “Happy End”, il nuovo film di Michael Haneke passato in concorso a Cannes. I Laurent sono una famiglia di costruttori a Calais, terra di migranti: tra loro rapporti interessati, disturbi e desideri di morte. Non è un’apocalisse ma una stasi, incarnata da Trintignant sulla sedia a rotelle, che cerca aiutanti per suicidarsi. Niente di tragico ma solo ridicolo…

Una famiglia borghese a Calais. Dentro il guscio rapporti interessati, perversioni sessuali e non, disturbi. E morte, soprattutto morte: a partire dall’inizio ripreso da cellulare, in cui la giovane Eve prova una dose di farmaci su un animale per poi impartirla alla madre.

È stato (quasi) unanimemente salutato come “film minore” questo Happy End di Michael Haneke, in concorso all’ultimo Festival di Cannes, da giovedì 30 novembre nelle sale italiane (distribuzione Cinema di De Paolis). D’altronde l’autore, due Palme d’oro e un Oscar, ha abituato il pubblico al suo sguardo, è stato trasformato in aggettivo, di chi sonda la possibilità del Male si dice “hanekiano” (spesso a torto: Amour inscena una dura prova d’amore). Comprensibile dunque che i suoi segni siano divenuti riconoscibili, qui visti perfino come trascurabili, ma semplicemente perché inferiori all’alto magistero dell’autore.

In Happy End da una parte ci sono i Laurent, famiglia di costruttori e speculatori che non evitano crolli; dall’altra i migranti a Calais, che arrivano in Francia per il canale della Manica, e Haneke – che non è cineasta civile – li rende invisibili, letteralmente posizionandoli fuori campo per farli entrare solo nel finale. C’è il personaggio di Anne, algida madre borghese (Isabelle Huppert a lavoro sul suo archetipo), cinica o affettuosa a seconda delle circostanze ma solo per forma, che organizza un fidanzamento di interesse; il figlio Pierre (Franz Rogowski), delfino dell’impresa familiare già fallito, preda progressiva di alcool e disturbi; il fratello Thomas (Mathieu Kassovitz), dedito a pratiche estreme con l’amante, enunciate in chat su Facebook. Forme tipiche del cinema hanekiano, quindi, che rifanno se stesse (ovviamente la Huppert de La pianista), a cui si aggiunge la costante registrazione dei dispositivi dell’oggi (cellulari, social network) come nudo dato di fatto.

Dove il racconto si accende è nel rapporto tra un nonno e una nipote, sviluppato gradualmente all’insegna della morte: l’anziano Georges (Jean-Louis Trintignant) vuole morire ma non vi riesce, lo ha lucidamente deciso, ci ha provato e il sospetto Alzheimer che finge è (forse) solo presunto per inscenare vuoti di memoria; la tredicenne angelica Eve (Fantine Harduin) è l’unica che può aiutarlo, anche lei è appassionata di morte, la pratica sugli altri e su di sé, solo una novella assassina può favorire un suicidio/eutanasia.

Haneke varia il suo cinema allestendone la replica, e non c’è niente di male se Trintignant suggerisce il suo personaggio in Amour, se la giovane Harduin riporta i bambini de Il nastro bianco, con l’eventualità del male che si annida lì nelle pieghe della Storia, qui alla luce dei nostri giorni: perché è sempre lo stesso film, tutto sommato, nella sua vivisezione post-bunueliana della polvere sotto il tappeto, nel sequestro dell’occhio che diventa in balia del regista, per vedere cosa c’è dietro l’abitudine, la formalità, la struttura mentale assodata.

Con Happy End questo cinema si incarta per scelta. La storia della famiglia incrocia quella dei migranti, esattamente come nell’ultimo film di Robert Guédiguian, La villa in concorso a Venezia: ma gli sguardi sono agli antipodi, laddove l’umanesimo di Guédiguian indica una mano tesa e si scontra col vuoto dispositivo hanekiano. Qui, infatti, nulla si muove ed ecco il paradossale cambiamento: quella della famiglia borghese non è un’apocalisse ma una paralisi, non è più possibile neanche la strage di Funny Games, tutto è in condizione di stasi, il film – come un cellulare – si limita a registrare.

Quando i rifugiati irrompono al banchetto, non a caso, Anne/Huppert li invita a restare con un gesto solo formale, aprirsi davvero all’altro è impensabile. All’inizio la famiglia è già finita, non può dissolversi perché è una farsa, e così il racconto si chiude in un graffio grottesco: anche l’ultimo tentativo di suicidio di Georges non riesce, intervengono i suoi figli a impedirlo. Questi che corrono dietro al padre, in sedie a rotelle nell’acqua, la stessa da cui giungono i migranti: niente di tragico ma solo ridicolo, e come tutto il ridicolo contemporaneo viene puntualmente ripreso dal cellulare. Diventerà un video su Facebook o una gif da inviare ad amici immaginari. E qui Haneke vede il presente.