La vita da romanzo dello scrittore “ignoto” amato da Sartre. È “Sqizo” al Biografilm
In anteprima mondiale a BiografilmFest, “Sqizo” doc di Duccio Fabbri dedicato a Louis Wilfson, scrittore culto dell’editore Gallimard nella Parigi degli anni Settanta, ma totalmente ignorato negli Stati Uniti dove è nato da genitori lituani ed ha vissuto gran parte della sua vita. Un’esistenza da romanzo, tra ospedali psichiatrici, il gioco d’azzardo e quella sua lingua letteraria totalmente inventata (nata dal rifiuto di quella materna) che l’ha portato al suo romanzo manifesto “Le Schizo et les langues” pubblicato nel 1970 e mai tradotto in Italia …
C’è una legge fondamentale della linguistica: la relazione tra una parola e il suo referente reale è totalmente arbitraria. Cioè, detto in parole semplici, non c’è nessun motivo per cui la parola “bicchiere” designa un recipiente cavo per liquidi, non c’è alcuna logica connessione tra l’oggetto e il lemma che lo rappresenta. È una legge granitica che agli studenti viene insegnata con la stessa sicurezza con cui gli si insegna che lo spazio è determinato dalla moltiplicazione di tempo e velocità.
Leggi come questa è raro che vengano messe in discussione, sono le fondamenta di tutto un campo di studi, nessuno si aspetta che possano rivelarsi fallaci, né tantomeno che a metterle in crisi possa essere un uomo schizofrenico, scheletrico e che sembra provare una fatica immane nel pronunciare qualsiasi parola. Eppure è andata proprio così quando – un giorno del 1963 – nella più grande casa editrice francese, Gallimard, piomba all’improvviso un testo arrivato dall’America che spiega un nuovo sistema linguistico creato da un newyorkese sconosciuto.
Sconosciuto, infatti, era allora e sconosciuto è anche oggi Louis Wolfson, lo scrittore del Bronx che Duccio Fabbri ha fatto conoscere al pubblico del BiografilmFest 2020 con Sqizo, documentario presentato in anteprima mondiale (frutto di una coproduzione italo-americana di Valeria Adilardi, Duccio Fabbri, Luca Ricciardi, Laura Romano).
La voce di Fabbri accompagna le immagini e racconta una ricerca atipica, ostacolata prima dalle poche informazioni sullo scrittore 89enne, dato ormai per disperso (ma trovato invece su un banale elenco telefonico), e poi dalla reticenza di Wolfson all’intervista. Dopo tre anni di rimandi l’unica soluzione resta presentarsi direttamente a casa sua, una stanzetta nel quartiere universitario di San Juan de Puerto Rico in cui non spegne mai la luce.
Inizia così il racconto della giovinezza travagliata di Wolfson, nato a New York da immigrati lituani e bielorussi, internato a tradimento dalla madre in un ospedale psichiatrico da cui riuscirà a a scappare a più riprese, ma in cui verrà sottoposto più volte all’elettroshock («Gli psichiatri dicono che non danneggia il cervello, ma gli psichiatri non subiscono elettroschok»). Tutto questo è narrato in quel famoso libro pubblicato da Gallimard nel ’70 dopo varie traversie, Le Schizo et les langues (“Lo schizofrenico e le lingue”, mai tradotto in Italia), un’autobiografia scritta in terza persona, a cui Fabbri fa da contraltare per tutto il documentario narrando sempre in seconda persona.
La cosa più straordinaria del lavoro di Wolfson è però l’aspetto linguistico: il libro è scritto in francese perché l’autore ha rinnegato completamente la propria lingua madre. Anzi, per non utilizzarla ha studiato ossessivamente francese, russo e yiddish, creando un codice alternativo basato sia sull’assonanza con le parole inglesi che sul referente reale, frantumando quindi la regola dell’arbitrarietà. Il libro esplode in Francia, Sartre ne pubblica una parte nella sua rivista, Foucault ne rimane impressionato, Deleuze ne scrive la prefazione. In America, Wolfson rimane uno sconosciuto e si oppone fermamente alla traduzione in inglese.
Un professore spiega che il motivo risiede in un termine tecnico: “misofonia”, avversione al rumore. Ma ciò che risulta sconvolgente è che l’esperienza traumatica vissuta in gioventù ha fatto sì che anche l’inglese, associato alla madre, sia diventato rumore, costringendolo quindi a cercare una soluzione alternativa. «Tecnicamente è impossibile essere allergici a una lingua», dice Paul Auster, il grande romanziere americano, intervistato di pregio del documentario. Effettivamente è così, ma questo è un caso particolare in cui la lingua diventa materia e da materia passa ad essere molto semplicemente dolore.
Fabbri alterna flashback vertiginosi e sfocati a momenti di lettura che dovrebbero essere distensivi, ma che il modo di parlare lento e faticoso di Wolfson, fatto di interruzioni e di un francese con forte accento americano, rende quasi sofferenti. Tutto cambia con la morte della madre, i flashback si interrompono e il documentario vira su un tema che sembrerebbe essere molto lontano da quanto raccontato fino a quel momento: il gioco. Non lo è, invece. Si tratta della seconda enorme ossessione di Wolfson, la ricerca spasmodica del sistema perfetto per vincere, ma a guardar bene è sempre la stessa. Credere che esista un sistema significa rifiutare il concetto di casualità, lo stesso concetto che è poi alla base di quella regola linguistica disgregata nel suo libro.
Fabbri prende quindi a farsi guidare direttamente da Wolfson attraverso i suoi luoghi, una camminata che appare incerta e precaria, come lo era la lettura, ma che invece ha direzioni precise. È la cronaca dell’avvenuto miracolo, della sera in cui il sistema ha finalmente ripagato il suo autore sotto la forma di un jackpot milionario. Wolfson racconta con orgoglio: «Ho giocato e allo stereo è partita una canzone che diceva dreams come true. In quel momento ho capito che avrei vinto, ho iniziato a tremare e a piangere. Il giorno dopo ho controllato ed avevo vinto davvero».
Da qui inizia la straziante cronaca con cui si conclude il documentario, quella della truffa che la banca perpetra a Wolfson, investendo tutti i suoi milioni in titoli spazzatura. Anche Fabbri non riesce a nascondere (o forse non vuole) la compassione che gli suscita vedere quell’uomo affrontare da solo i venti avvocati del Banco Popular de Puerto Rico, con delle croci nere disegnate sulle guance in segno di lutto per il suo denaro perduto. Wolfson promette di andarsene in Russia per protesta contro gli Stati Uniti, poi propone di andare meno drasticamente a vedere l’eclissi di luna sulla spiaggia, «senza interrogatori».
Alla domanda su quale sia la speranza per il futuro risponde lapidario: «la morte». È l’unico scopo che trova in questo mondo, autodistruggersi grazie all’energia nucleare. La sua piccola missione sulla Terra Wolfson l’ha compiuta, per lui aver vinto quella lotteria è come un Nobel. D’altronde le possibilità erano di uno a nove milioni, una fortuna verrebbe da dire, ma in questo caso specifico, bisogna convenire, il caso non esiste.
Tobia Cimini
Perditempo professionista. Spende il novanta percento del suo tempo leggendo, vedendo un film o ascoltando Bruce Springsteen. Nel restante dieci, dorme.
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