La Wonder Woman degli scacchi senza superpoteri. Quando il genio è donna
È sicuramente tra i titoli più acclamati del 2020: “La regina degli scacchi”, serie Netflix ispirata all’eroina del romanzo breve di Walter Tevis (Mondadori), la ragazza-prodigio Beth Harmon, campionessa mondiale di quello sport tutta testa, fino allora prerogativa dell’universo maschile. Ma non è la fiaba di Cenerentola, non ci sono fate né principi, solo conflitto e competizione e dipendenza, dai tranquillanti propinati a manetta in orfanatrofio e dall’alcool ereditato dalla mamma adottiva. La conquista del trono è lastricata di perdite. La solitudine dei numeri primi?
Il titolo italiano, La regina degli scacchi, non è di quelli che allettino i renitenti alla scacchiera. Persino più scoraggiante suona il titolo originale, The Queen’s Gambit, riferito a un’apertura di gioco da manuale. Eppure questa miniserie in sette episodi che dal 23 ottobre impera su Netflix è diventata il “caso” dell’anno.
La critica Usa, Time in primis, osanna unanime questo prestige drama che resuscita la good tv, la tv di qualità. E che ci consegna una Wonder Woman a misura di un’era di segregazione virale come la nostra: né prodezze acrobatiche né effetti speciali, solo un prodigioso talento per un gioco indoor tradizionalmente dominato dai maschi. La sintesi più felice non è farina mia: La regina degli scacchi è il Rocky delle donne pensanti.
Era una sfida ambiziosa quella di conquistare le platee non-scacchiste all’eroina del romanzo breve di Walter Tevis, uscito nel 1983 (da noi con Mondadori). Dopo Michael Apted e Bernardo Bertolucci, Heath Ledger si era candidato a portarlo sullo schermo. Non ci è riuscito, e sappiamo perché.
Ma la serialità offre possibilità di scavo psicologico precluse ai tempi brevi del cinema, e difficilmente le attrici opzionate negli anni – Molly Ringwald ed Ellen Page- avrebbero reso iconica la ragazza-prodigio Beth Harmon con l’impatto magnetico di Anya Taylor-Joy (sconosciuta ai più ma per poco, la vedremo nella nuova trasposizione di Emma, da Jane Austen).
Contano certo i talenti scomodati dal regista e sceneggiatore Scott Frank per cesellare atmosfere e dettagli, la consulenza eminente di Gary Kasparov, un production designer stellare come Uli Hanish, il mago di Babylon Berlin. Ma conta molto di più l’intensità umana del racconto: “c’è il mondo intero in 64 caselle”, come dice Beth-Anya, che nella miseria di un orfanatrofio del Kentucky trova tra torri, alfieri e pedoni il suo rifugio e la sua ossessione, il suo strumento di rabbia e riscatto.
Tra la fine degli anni ’50, con Harmon bimbetta chiusa e solitaria, e la fine degli anni ’60, con l’approdo al supremo torneo dei Grandi Maestri mondiali da campionessa strepitosamente abbigliata d’epoca dal costumista Gabriele Binder, assistiamo a una metamorfosi sbalorditiva.
Ma non è la fiaba di Cenerentola, non ci sono fate né principi, solo conflitto e competizione e dipendenza, dai tranquillanti propinati a manetta in orfanatrofio e dall’alcool ereditato dalla mamma adottiva. La conquista del trono è lastricata di perdite. La solitudine dei numeri primi?
In questa storia i padri scappano, tutti, e le madri restano, ma non sopravvivono abbastanza per essere casa, affetto, sicurezza. Il solo a svolgere il ruolo di padre è lo scontroso custode dell’orfanatrofio (Bill Camp). Spiando il suo passatempo segreto, in cantina, la ragazzina impara a sognare. E a vincere, anche se suderà sangue prima di poter ottenere una scacchiera tutta sua. È una nerd povera ed emarginata, un genio femmina con una strada tutta in salita in uno sport di primedonne rigorosamente maschili. C’è qualcosa di meglio, di più forte e inclusivo, di una Wonder Woman senza superpoteri?
È l’intensità fuori norma di Anya Taylor-Joy a rendere palpitanti anche i lunghi silenzi delle partite. E un esercizio divertente per i cinefili è riconoscere tra gli sfidanti di Beth Harmon (e compagni di strada e di letto, in seguito ) ex baby-attori cresciuti come Harry Melling, studente di magia con Harry Potter nella saga, e come il Thomas Brodie-Sangster di Love Actually e de Il Trono di Spade.
Mi sono bevuta La regina degli scacchi da binge-watcher, sette episodi tutti d’un fiato. Non mi chiedevo se avrebbe davvero scalato una vetta preclusa alle donne, la risposta è già nel titolo. Il focus non è il successo, è il come, il perché, i prezzi che paghi.
Ma se un prestige drama ha il pregio speciale di dispensarci da una seconda, una terza, e chissà quante altre stagioni di comodo sfruttamento, allora, e solo allora, evviva, è veramente perfetto. O dovrei dire: dà scacco matto ?
Teresa Marchesi
Giornalista, critica cinematografica e regista. Ha seguito per 27 anni come Inviato Speciale i grandi eventi di cinema e musica per il Tg3 Rai. Come regista ha diretto due documentari, "Effedià- Sulla mia cattiva strada", su Fabrizio De André, premiato con un Nastro d'Argento speciale e "Pivano Blues", su Fernanda Pivano, presentato in selezione ufficiale alla Mostra di Venezia e premiato come miglior film dalla Giuria del Biografilm Festival.
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