L’immagine resistente dei fratelli De Serio

I due autori di “Sette opere di misericordia” qui trattengono ciò che le ruspe hanno distrutto: il Platz di Torino, la baraccopoli con oltre mille persone oggi smantellata.  È I ricordi del fiume, un atto di resistenza che si compie nello spazio in cui si forma il ricordo. In sala dal 21 aprile per La Sarraz Pictures…

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È uno sguardo spiazzante quello di Gianluca e Massimiliano De Serio. I ricordi del fiume racconta il Platz di Torino, una delle più grandi baraccopoli d’Europa con oltre mille persone, migranti ma anche italiani, costruita sul fiume Stura e oggi demolita. Nel tempo tra l’ordinanza e l’arrivo effettivo delle ruspe, circa un anno e mezzo, i due fratelli registi ne indagano la realtà per girare il documentario. Presentato Fuori concorso al Festival di Venezia nella versione di 140 minuti, il film arriva nelle sale giovedì 21 aprile nella versione rimontata di 96′. Lo sbarco al cinema è però limitato: l’opera viene portata in giro quasi “a mano” e con pazienza da La Sarraz distribuzione in alcune sale del paese. Qui l’elenco completo.

Il film si apre sul pedinamento di un bambino, con la camera a mano posta alle sue spalle che insieme lo segue e si fa guidare da lui: entriamo così nella baraccopoli, un dedalo di vicoli, fango, metallo e persone, come un occhio esterno che diventa interno per catturare un quotidiano in via di dissoluzione. Nell’attesa delle ruspe, infatti, il particolare delle vite viene impresso su pellicola nella consapevolezza che presto non ci sarà più: sono quelli i ricordi, le immagini che la pellicola vuole conservare, e dall’altra parte c’è il fiume, lo Stura che si fa simbolico del passaggio, la transitorietà delle cose umane che gradualmente scorrono oltre. Il titolo è dunque un’antitesi: I ricordi del fiume insinua l’esigenza di ricordare quello che passa, trattenere ciò che svanirà, una comunità, e l’ambizione di farlo attraverso l’inquadratura. Allo stesso tempo avverte la consapevolezza che i ricordi di un fiume sono liquidi e vanno via.

Gianluca e Massimiliano De Serio, nella loro tecnica, guardano perfino a Frederick Wiseman: il metodo dei lunghi appostamenti è vicino al cineasta americano, posizionare la macchina da presa dove non accade nulla e aspettare il fatto significativo, la sintesi, l’epifania. Porsi sempre fuori campo, non forzare mai l’oggetto ma attendere che sia lui a parlare. Interrogare il reale con pazienza e ottenere in cambio la registrazione del vero.

È così che l’incursione nel Platz cattura riprese struggenti e dislocanti, come la ragazza rom che per cullare un neonato intona una ballata sull’infelicità coniugale (“Mio marito è il mio angelo custode, ma da un po’ ha iniziato a bere”) che poi – naturalmente – si tramuta in canto dei partigiani sui monti piemontesi. A decretare, nello spazio di una scena, l’incontro e la crasi tra due bacini culturali, l’italiano e lo straniero, che non sono più l’uno e l’altro ma ormai idealmente congiunti: come il film e i suoi personaggi, che rivelano non solo il loro essere ma anche il nostro saperli guardare.

Il rigore dell’operazione rimanda ai fratelli Dardenne (si pensi a Rosetta, il film del 1999 sulla giovane che vive in una roulotte, e si pensi che i registi valloni vengono dal documentario), e dialoga con Ta’ang di Wang Bing presentato alla Berlinale 2016: come il maestro cinese “accompagna” i profughi in fuga dalla guerra in Birmania, qui i registi di Torino seguono il destino degli indigenti fino all’azione delle ruspe, ripresa senza parole.

Ma attenzione: malgrado i riferimenti plausibili non è cinema derivativo, questo, anzi vive di vita propria, non si limita a fotografare la realtà ma vuole darle un senso. Allora ecco scarti improvvisi, quadri visivi che suggeriscono letture scomode: alcuni abitanti, trasferiti nelle “case vere” a loro assegnate, sono inchiodati in stanze asettiche e moduli fotocopia, paradossalmente regrediscono rispetto alle baracche sul fiume.

La chiusura circolare riprende l’incipit: è la stessa scena, seguiamo lo stesso bambino dallo stesso punto di visione, sempre dietro la nuca. Ma, al posto di una comunità, ora avanziamo tra le macerie. Lo spiazzamento che ne deriva, la mancanza di qualcosa che c’era è il possibile senso del film: il tentativo di trattenerla è il suo atto di resistenza. Un atto umano, stilistico, politico che si compie nello spazio in cui si forma il ricordo.