“L’infanzia di un capo”, l’anticristo secondo Sartre
In sala dal 29 giugno (per Fil Rouge Media) il film d’esordio di Brady Corbet, “L’infanzia di un capo”, tratto dal racconto di Jean-Paul Sartre. Il regista, già attore di Haneke, guarda a “Il nastro bianco” e segue una strada peculiare: nelle ombre della Storia nasce il dittatore, si forgia e cresce, ma non sono i presupposti sociali ad allevarlo. Ossia il Male con la maiuscola non può davvero essere spiegato. Da vedere…

Da ragazzo difficile a dittatore, forse anticristo, simbolo del Male che si insinua nelle zone d’ombra della Storia. Brady Corbet adatta il racconto Infanzia di un capo di Jean-Paul Sartre (nella raccolta Il muro, Einaudi), pubblicato per la prima volta nel 1939: il film del 2015 (The Childhood of a Leader) arriva in sala dal 29 giugno distribuito da Fil Rouge Media con due anni di ritardo.
Corbet, attore al debutto alla regia, è un volto del cinema indipendente americano, da Thirteen della Hardwicke a Mysterious Skin di Araki, ma soprattutto è stato interprete di Michael Haneke: co-protagonista di Funny Games del 2007, auto-remake americano dell’originale, insieme a Michael Pitt è il criminale che viola il nido domestico borghese per (ri)fare un massacro senza motivo. La violenza per la violenza.
Avendo evidentemente introiettato il dettato hanekiano, ma solo come riferimento di ispirazione per poi seguire una strada personale, Corbet qui non guarda strettamente a Funny Games ma piuttosto a Il nastro bianco: è con il film Palma d’oro 2009 che L’infanzia di un capo presenta più assonanze, in particolare nell’idea della notte della Storia che si concretizza in precise situazioni e figure che ne diventano metafora (lì i bambini responsabili, qui il piccolo Prescott). Tra il racconto di Sarte, il film di Corbet e Funny Games c’è piuttosto un’unica grande rima: l’idea angolare che il Male con la maiuscola, al di là di ipotesi e sociologismi, non possa davvero essere spiegato.
Leone del futuro (migliore opera prima) e premio alla regia nella sezione Orizzonti a Venezia 2015, L’infanzia di un capo segue il percorso del giovane Prescott (Tom Sweet), che cresce in una villa fuori Parigi: il padre (Liam Cunningham) è un consigliere impegnato nella definizione dei trattati di pace dopo la prima guerra mondiale, la madre (Bérénice Bejo) è una donna austera e religiosa, Charles Marker (Robert Pattinson) è un ambiguo amico di famiglia.
Diviso in quattro capitoli, il racconto sviluppa la contro-educazione di Prescott e il graduale emergere del Male che coincide con i suoi scatti d’ira: da bambino, vestito da angelo, tira pietre in un gesto biblico senza morale, compiuto al contrario; è sessualmente precoce, come attesta la soggettiva del suo sguardo che scruta le trasparenze di Anne/Stacy Martin, maestra di francese, prima di un approccio prematuro che lascia intuire la comprensione dei tradimenti degli adulti.
Nel secondo scatto d’ira il bambino, scambiato per bambina, si mostra nudo dinanzi ai diplomatici: il diavolo è androgino, e già in giovanissima età capace di manovrare la situazione piegandola alla sua strategia, si veda il licenziamento di Anne tessuto con un lucido e “diabolico” piano strategico.
E sempre, a tratti, l’intreccio lascia intravedere un’essenza quasi sovrannaturale, in una conoscenza perfetta del francese, in un braccio rotto che viene manipolato per rimpallare la responsabilità sui grandi. È il terzo scatto d’ira che decreta il punto di non ritorno: «I don’t believe in praying anymore», dice Prescott, non credo più alle preghiere, ed è un ripetere ossessivo, a voce alterata, posseduta.
La trasformazione in anticristo è avvenuta, passando per l’esibizione del compiuto ateismo, che dunque respinge il cristianesimo e simbolicamente uccide la madre. La liberazione dal padre era già nei fatti: non a caso l’infanzia del mostro, colui che porta la guerra, si dipana nella casa che sta definendo una pace. Finita l’incubazione, il leader/anticristo può mostrarsi agli occhi del pubblico, una folla acclamante a cui Corbet consegna un’agnizione nell’immagine: il Prescott adulto diventa Robert Pattinson, lo stesso volto dell’amico di famiglia, a rivelare il peccato originale del diavolo nato da un adulterio.
Il regista avvolge la storia in una messinscena fluida e compatta, enfatizzata dalla soundtrack di Scott Walker, passando solidamente da un frammento al successivo: da una parte segue la parabola di Prescott, dall’altra traccia un implicito sempre presente, sonda il Male che alligna nel sonno della Storia.
È un’allegoria chiara che arriva al bersaglio: dalle ombre nasce il dittatore, si forgia e cresce, ma non sono i presupposti sociali ad allevarlo, Prescott è in sé, seppure generato dalla comunità degli uomini non ha spiegazione definitiva. Figlio di una madre osservante e un padre dalla parte del bene, la sua sostanza resta un mistero.
È anche cinema evidente, metafora politica solare, che si sostanzia attraverso la rappresentazione e consegna alla forza del racconto, tanto palese quanto indubbiamente riuscito. Brady Corbet conduce l’adattamento mediante la costruzione dell’inquadratura, culminando nel finale: qui la macchina da presa ruota vorticosamente su di sé a significare una prospettiva impazzita, una frammentazione dell’immagine, ovvero il caos dello sguardo che prelude all’avvento di una dittatura.
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