Al di là del bene e del male. L’infanzia secondo Agota Kristof
Con una prosa che ha “l’andatura di una marionetta omicida” ecco “Il grande quaderno”, capolavoro della scrittrice ungherese, Agota Kristof, col quale ha conosciuto la ribalta internazionale nel 1986. L’orrore della guerra vissuto attrarso gli occhi di due gemelli, la loro educazione alla crudeltà imposta dalla Storia, trasformato in film da Janos Szasz e in prima televisiva su laF, mercoledì 13 maggio. Da vedere e da leggere …
“La gente è crudele, ama uccidere. È la guerra che gliel’ha insegnato”. Così annotano i due ragazzini gemelli sul Grande Quaderno, dove scrivono tutto ciò che gli accade, da quando la giovane madre, nel tentativo disperato di salvarli dalle devastazioni della guerra nella grande città in cui vivevano, li ha lasciati in un piccolo villaggio in balia delle attenzioni tutt’altro che amorevoli della nonna alcolista e vessatrice.
I compaesani la chiamano “la Strega” e sostengono che abbia avvelenato il marito. Lei chiama “figli di cagna” i due bambini, che si attrezzano scrupolosamente, per sopravvivere a un dolore altrimenti insostenibile per l’anima e per il fisico. Nei loro durissimi esercizi quotidiani si autoinfliggono pene morali e corporali, per irrobustire lo spirito e il corpo e imparare a sopportare senza piangere né lamentarsi.
Raccontano tutto con una voce sola, con il noi, fondendosi e confondendosi l’uno nell’altro, perché insieme possono farcela, mentre separati rischiano di soccombere a una realtà tragica e spietata. Il dizionario del padre e la Bibbia trovata a casa della nonna sono gli strumenti che i due ragazzini usano per imparare a leggere e a scrivere da soli, senza andare a scuola, chiusa per i bombardamenti.
L’uno corregge gli errori di scrittura dell’altro, secondo criteri molto semplici: Bene quando il testo descrive cose, persone e fatti, meritando la trascrizione nel Grande Quaderno, e Non Bene, se invece le parole riferiscono sentimenti o qualità soggettive. Come il verbo amare, che “manca di precisione e di obiettività”.
Insomma, il male è un concetto abolito e le emozioni cancellate perché portano fuori strada. Il presente è l’unico tempo possibile per vivere e raccontare la verità ed è il tempo della prosa essenziale e diretta di Agota Kristof, capace di colpire a fondo immediatamente, dalla prima pagina, e poi commuovere, sorprendere, disorientare in un susseguirsi di emozioni contrastanti tra loro e nei confronti dello stesso racconto, che appunto le azzera.
Nella quarta di copertina della Trilogia della città di K (Einaudi, pp. 380, euro 13,00), di cui Il grande quaderno costituisce il primo romanzo, Giorgio Manganelli la descrive come “Una prosa di perfetta, innaturale secchezza, una prosa che ha l’andatura di una marionetta omicida”. Come in una parabola o in una favola nera, il luogo dell’azione non ha nome, anche se sono evidenti i riferimenti, spesso amaramente ironici, all’Ungheria, patria della scrittrice, nel periodo che va dall’occupazione nazista durante la seconda guerra a quella dei russi, “i nuovi stranieri, che adesso chiamano l’armata di Liberazione”, che si trasforma in invasione permanente.
La stessa Kristof, scomparsa nel 2011, ammise di avere elaborato narrativamente episodi ed esperienze vissuti direttamente, prima di lasciare il paese, per volontà del marito, subito dopo l’intervento armato sovietico per reprimere la rivolta degli ungheresi contro l’invasione.
E non hanno nome i protagonisti della storia, che sappiamo essere Lucas e Claus dai libri successivi della Trilogia, La prova e La terza menzogna, nei quali la storia dei due prosegue ma su binari diversi e, ancora una volta, sorprendenti. Come non hanno nome i personaggi del racconto: l’ufficiale, l’attendente, la fantesca, il curato, labbro leporino, il calzolaio e tutti gli altri che aggiungono ognuno un tassello al percorso di iniziazione dei due speciali ragazzini, talmente compresi nella loro costruzione algida e stoica, da sentirsi in dovere di elargire doni e punizioni, al riparo di un cinismo che li pone al di sopra del bene e del male.
Come e forse più degli altri due libri della Trilogia, successo internazionale nel 1987 stampato in una trentina di lingue, Il grande quaderno destabilizza e, con grande potenza narrativa, suggerisce l’opportunità di sospendere il giudizio sulle persone e sulle loro azioni, ma non quello sulla guerra e sull’esercizio autoritario del potere.
Inevitabile il desiderio di portare la storia sul grande schermo e a Janos Szasz va il merito di averlo fatto. Prima di lui, nel 2002, solo Silvio Soldini aveva preso ispirazione da Agota Kristof, per girare Brucio nel vento, tratto da Ieri, pubblicato in Italia nel 2002, anch’esso da Einaudi.
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