L’uomo senza qualità di Julian Barnes. Aspettando il film

È “Il senso di una fine” fortunato e premiato romanzo del britannico Julian Barnes (Einaudi). Un libro intenso e fluido, scomodo e un po’ presuntuoso in cui grande protagonista è il tempo. Quello che ripercorre l’anziano Tony Webster, costretto a risalire sul tapis roulant della sua vita senza qualità, a scontrarsi con la fallacia crudele dei suoi ricordi e un segreto insostenibile. Il 12 ottobre in sala (per Bim) l’adattamento firmato dal regista indiano Ritesh Batra (lo stesso de “Le nostre anime di notte” di Kent Haruf) …

Fossero ancora vivi Harold Pinter e Joseph Losey per farne un film!, invocava su Panorama Goffredo Fofi nel giugno di cinque anni fa, recensendo Il senso di una fine di Julian Barnes (sì quello del Pappagallo di Flaubert), vincitore all’epoca dell’importante Booker Prize (dove Il pappagallo era arrivato finalista).

Pinter+Losey firmarono insieme tre assoluti capolavori incentrati sul potere, la seduzione, la rigidità delle convenzioni sociali come Il servo, L’incidente e Messaggero d’amore, quest’ultimo apertamente ispirato alla filosofia di Bergson e al suo lavoro sul tempo, uno dei grandi temi pinteriani: “Quello che mi colpisce di più nel soggetto è il ruolo del tempo: l’annullamento del tempo realizzato dal ritorno dell’uomo sui luoghi delle esperienze della sua infanzia”, scrisse a suo tempo Pinter ed è ovvio che Fofi abbia pensato a loro per una riduzione sul grande schermo del fortunato romanzo di Barnes (in Italia per Einaudi).

E invece il film – ha debuttato a Londra e sarà in autuno nelle nostre sale per Bim, protagonisti Jim Broadbent e Charlotte Rampling – porta la firma di Ritesh Batra (sì, quello di Lunchbox e dell’imminente Le nostre anime di notte da Kent Haruf) e non sappiamo ancora se sia proprio una buona notizia.

Anche in questo libro, insieme dilatato e breve (150 pagine appena), intenso e fluido, scomodo e un po’ presuntuoso, grande protagonista è il Tempo. Il tempo che scorre oggettivo, storico, lineare accanto al tempo che si impregna di significato. Il tempo che non si sa se lavori da fissativo o da solvente. Il tempo della Storia e delle storie, il tempo che entra ed esce dalle nostre vite, le plasma, le tesse, le dipana e che sfugge come niente altro al mondo al nostro controllo.

Il tempo che è anche, inevitabilmente, narrazione e dunque, in quanto tale, ancora una volta dicotomia tra realtà e finzione. “Viviamo nel tempo, il tempo ci definisce e ci vincola e dovrebbe anche essere misura della storia, no? Ma se non riusciamo a comprenderlo, se non ne afferriamo il mistero in termini di andamento e decorso, che speranze possiamo avere con la storia, perfino con il marginale frammento della nostra personale, peraltro assai poco documentata?”, si chiede continuamente l’io molto narrante Tony Webster nel suo percorrere di continuo i ricordi legati agli anni della scuola, al trio di amici un po’ saccenti un po’ impacciati con cui s’affacciava alla vita, alle schermaglie poco amorose con Veronica Ford, alla rivoluzione sessuale degli anni Sessanta che era nell’aria ma “non per tutti”.

Su quelle immagini sale, scende, si ferma, si trastulla. Se ne lascia trasportare come fosse su una scala mobile, un tapis-roulant dove è la memoria canaglia a schiacciare i comandi dell’accelerazione o dello stop. Ed esse tornano, ossessive, petulanti, inaspettate e scontate, come le lancette davanti alle ore dell’orologio, inesorabili. Sempre le stesse ore e sempre diverse.

Due soli capitoli, uno di “andata” e uno di “ritorno”, in omaggio al chronos e al kairos, ma anche – anzi, soprattutto – alla dualità di cui parla, tra le altre cose, il fondamentale libro del grande critico e storico letterario Frank Kermode di cui il romanzo porta il titolo.

Tony, dunque, ricorda. Di quando era giovane e nella sua vita entrò Adrian Finn, brillante, profondo, intelligente (“troppo intelligente” decreterà sua madre quando verrà a sapere del suo suicidio). Di quando andò all’università di Bristol e conobbe Veronica, che lo tiene sulla corda, corteggiandolo senza mai concedersi, e in un fine settimana lo porta dai suoi, dove Tony si sente sbeffeggiato e deriso. Di quando presenta i suoi amici a Veronica e passano insieme un’unica giornata e di quando, dopo che si erano già lasciati da un po, Adrian gli scrive chiedendogli una sorta di autorizzazione ad uscire proprio con la ragazza. Tony risponde prima con leggerezza, poi con una lettera arrabbiata e crudele di cui sapremo solo nel capitolo di ritorno.

Perché gli anni passano, il tempo scorre, i ricordi si affastellano, si sovrappongono, evaporano. Intanto Tony è un ex funzionario ormai in pensione, divorziato, padre di una figlia che sembra più che altro ignorarlo, occupato a sopravvivere, a evitare il mare aperto, le correnti imperiose, gli accumuli e le responsabilità.

Ma un giorno arriva la peripezia di cui parla Kermode, il turning point: la madre di Veronica, morendo, ha lasciato proprio a lui il diario di Adrian. Come pesci avvelenati tornano a galla gli anni della gioventù e Tony s’imbarca in una quest che lo costringerà a ripercorrere tutte le caselle del gioco dell’oca di allora, fino alla stessa Veronica, che possiede il diario e non ha la minima intenzione di consegnarglielo. E qui il placido, grigio e opaco Mr Webster è costretto a risalire sul tapis roulant della sua vita senza qualità, a scontrarsi con la fallacia crudele dei suoi ricordi e la vendetta rabbiosa che si era costretto a dimenticare, con un segreto così insostenibile che più volte la donna è costretta a sferzarlo: “Proprio non ci arrivi, eh?”. Si squarcerà il velo dell’autoassoluzione, il trucco ingannevole con cui Tony ha murato la sua coscienza? Perché è vero quel che dice Orhan Pamuk: “Impariamo dagli altri il significato della vita che viviamo”.

Non c’è dubbio che dopo il crescendo verso lo scioglimento del plot, si arrivi al finale del libro con un senso di vuoto, forse anche di delusione. Proprio sul finale del Senso di una fine ci fu all’uscita del libro un netto schierarsi dei critici, ma Barnes è proprio lì che vuole portarci. Barnes che anche qui mostra di amare i plot labirintici, le inchieste metafisiche, le citazioni colte (di cui anche questo libro è ricco, da Zweig a Larkin, da Wittgenstein a Camus), ci fa entrare sotto la pelle di quell’uomo qualunque per costringerci a condividerne le vigliaccherie, lo sconcerto, l’istinto banale della vita che scorre.

L’oscillare senza scampo, il tic-tac senza fine tra responsabilità e rimorso. Ed è riuscito a trasformare il titolo stesso del suo romanzo e del saggio di Kermode in un archetipo narrativo, una domanda filosofica e letteraria. Quando lottiamo (o soccombiamo) nel tentativo di “dare un senso al modo in cui diamo un senso al mondo” quale senso possiamo trovare nella fine, in una fine? È qui, dal tempo inverso che ci viene incontro dal futuro, che parla di noi a partire dal momento più importante della nostra vita, la nostra morte, che bisogna ripartire per leggerne, in filigrana, la verità.