Marlon Brando c’est moi. L’autobiografia del divo più sexy e ribelle di Hollywood
In libreria per La Nave di Teseo l’autobiografia di Marlon Brando: “Le canzoni che mi insegnava mia madre” scritta con il giornalista statunitense Robert Lindsey (tradotta da Annabella Caminiti). Si tratta di pagine feroci e sincere: dai ricordi commoventi dell’infanzia con la madre, alcolista come il padre, agli infiniti aneddoti sulla sua vita selvaggia da divo sexy, ribelle ed eretico …
Ecco in Italia l’autobiografia di Marlon Brando, l’ultimo divo del cinema, il più ribelle, eretico e sexy di tutti i tempi: l’attore che più di ogni altro ha cambiato il modo di porsi davanti alla macchina da presa ci racconta la sua vita selvaggia, pagata sempre senza sconti, in Le canzoni che mi insegnava mia madre (La Nave di Teseo, 490 pp., 64 pp. di appendice fotografica, 20 euro), scritta con il giornalista statunitense Robert Lindsey e tradotta da Annabella Caminiti.
Fra le 100 personalità più influenti del ventesimo secolo, secondo la rivista Time del 1973, meravigliosa creatura da giovane, capace di fare innamorare donne, uomini e persino l’asfalto dei marciapiedi di New York, sciupato dalla vita da vecchio, quando delusioni, lutti pesanti e lividi sul cuore diventano un fardello insopportabile: “Eppure un dato stupisce e commuove nel leggere della sua vita: non troverete una sola parola maligna nei confronti di nessuno”, nota Giulio Base, attore e regista, autore dell’introduzione al volume.
A 100 anni dalla nascita e a 20 dalla scomparsa (3 aprile 1924 – 1 luglio 2004), di uno dei protagonisti più controversi e inafferrabili del cinema hollywoodiano – fra le tante interpretazioni: Don Vito Corleone ne Il padrino e il dannato colonnello Kurtz in Apocalipse Now, fino al ribelle appassionato di motociclette in Il selvaggio e al leggendario primo ufficiale Fletcher Christian in Gli ammutinati del Bounty o ancora a Terry Malloy di Fronte del porto, uno scaricatore di porto ed ex pugile costretto a contrastare la malavita locale – ci viene proposta da Brando stesso.
Si tratta di pagine feroci e sincere: dai ricordi commoventi dell’infanzia con la madre, alcolista come il padre, sempre lontana da casa che gli aveva però trasmesso l’amore per la natura e gli animali e che conosceva “tutte le canzoni che siano mai state scritte,” al suo impegno da attivista che ha sconvolto l’America puritana, dagli scontri con gli studios di Hollywood, fino al sogno di un paradiso incontaminato su un atollo della Polinesia.
Inesauribile miniera di aneddoti e leggende, Brando stesso ha scritto la storia della propria vita, “per separare la verità da tutte le leggende inventate su di me, perché questo è il destino di chiunque sia travolto dal vortice distorto della celebrità”. Questa autobiografia è un viaggio seducente, divertente e “pieno di vita”, un’autoanalisi in cui l’autore evita di celebrarsi come divo e affronta sinceramente la sua umanità imperfetta, che lo rende somigliante a ciascuno di noi.
“Ho sempre considerato la mia vita una questione privata, che non doveva interessare nessuno (…) Fatta eccezione per alcuni temi morali e politici che mi hanno spinto a prendere una posizione, per tutta la vita ho cercato di restare in silenzio. Ora ho deciso di raccontare la mia vita per separare la verità da tutte le leggende inventate su di me, perché questo è il destino di chiunque sia travolto dal vortice distorto della celebrità” annuncia in apertura del volume.
Confessa di odiare sia la fama sia la recitazione e svela che Marilyn Monroe lo invitò a cena la sera in cui morì: “sono bravo a capire la gente e dico che in lei non c’erano indizi di suicidio”. In un altro passo invece racconta: “Ancora oggi incontro persone che mi vedono, automaticamente, come l’uomo duro, insensibile e rozzo di nome Stanley Kowalski di Un tram che si chiama desiderio (1951). Non possono farci nulla, ma è un fatto estremamente spiacevole per me”. E ancora “il regista migliore con il quale ho lavorato è stato Gillo Pontecorvo, anche se siamo stati sul punto di ammazzarci” ricorda, quando nel 1968 girarono a Cartagena, Queimada con una temperatura sempre sopra i 40 e Pontecorvo stava sempre sul set con addosso un pesante cappotto.
Nel 1973 chiese a un’amica apache, Sacheen Piccola Piuma, di presenziare al suo posto alla cerimonia degli Oscar in cui aveva vinto la statuetta come miglior attore per Il Padrino, per denunciare il trattamento degli indiani e il razzismo in generale. L’anno precedente, girando lo scandaloso Ultimo tango a Parigi (1972), destinato a restare nella storia del cinema, si era scontrato non poco con Bernardo Bertolucci, perché il regista, a suo avviso, aveva utilizzato alcune sue confidenze relative agli anni di psicoanalisi per disegnare il protagonista del film, nevrotico e irrisolto. Tuttavia Bertolucci disse di lui che era stato un attore: “puntualissimo, fedelissimo, cooperativo al massimo. Il sabato, quando non girava, per contratto, arrivava all’ora della pausa con rinfreschi per tutti.”
Moltissime le donne della sua vita, con le quali ritiene di essere sempre stato fortunato, ma il sogno dell’attore più affascinante e sexy della storia del cinema era di stare con una suora: “Una volta, in ospedale, ho anche tentato; si chiamava suor Raphael ed era veramente bellissima” confessa.
Amò bellezze come Marilyn Monroe, Anita Ekberg, Ava Gardner. Ma rivela che la donna della sua vita è stata non la madre annunciata nel titolo, ma «sembrerà incredibile: la sua babysitter, una ragazza indonesiana. Forse anche per questo motivo poi cercò per tutta la vita ragazze “esotiche”, non le classiche wasp, bianche, anglosassoni, protestanti. Di lei ricorda i capelli setosi, il seno caldo sul quale si rannicchiava e che lo faceva sentire accudito.
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