Metti una soap tra palestinesi e israeliani. Per ridere del conflitto, senza perdere la speranza

In sala dal 9 maggio (per Academy Two), “Tutti pazzi a Tel Aviv” del palestinese Sameh Zoabi. Divertita e divertente commedia sul tragico conflitto mediorientale raccontato a partire da una soap-opera di successo, adorata da israeliani e palestinesi, “Tel Aviv brucia”. Un film nel film tutto da gustare, dove si mostra, nonostante le cronache, che esiste ancora un margine, seppur sottile, di speranza di pace. Non c’è da augurarsi altro che abbia ragione. Certe volte, anche se molto rare, i visionari ci azzeccano …

Quando si dicono le coincidenze. Il 9 maggio, mentre la tensione ai confini di Gaza è tornata a farsi incandescente, e ancora una volta si contano decine di morti e centinaia di feriti fra i palestinesi e alcuni morti anche fra gli israeliani, nell’alternarsi di fragili tregue e minaccia di guerre devastanti, distribuito da Academy Two, uscirà nelle sale Tutti pazzi a Tel Aviv.

Non solo. Il 2 aprile sono stati giusti 30 anni da quando Yasser Arafat divenne, sull’onda di grandi speranze di pace, il primo presidente della Palestina.
E ancora. Appena un mese fa, il 9 aprile si sono svolte in Israele le elezioni politiche che hanno sancito la nuova vittoria di Benjamin Netanyahu alla testa di una maggioranza formata da partiti conservatori-confessionali che hanno nel programma di governo la cancellazione definitiva di ogni ipotesi della Palestina come stato indipendente dalla mappa politica del Medio Oriente. Ovvero la definitiva sepoltura di ogni speranza di pace, e l’instaurazione di un regime di occupazione permanente, una vera e propria apartheid di sudafricana memoria, tanto per capirci.

Se questa concomitanza di date fosse stata studiata sarebbe stato un vero colpo da maestro. Probabilmente, visto che la pellicola è dello scorso anno e le programmazioni delle distribuzioni viaggiano in base a calendari soltanto commerciali, dobbiamo rendere omaggio al solito Caso.

Fatto sta che il film vede la luce grazie a una coproduzione franco-belga-lussemburghese-israeliana ma è diretto da un regista palestinese militante, Sameh Zoabi qui alla sua quinta prova dietro la macchina da presa. Come dire, visti i tempi che corrono, un film figlio sia del diavolo che dell’acqua santa, ove non è davvero facile stabilire definitivamente chi sia il diavolo e chi l’acqua santa in quel tragico guazzabuglio che si trascina da oltre 70 anni e nel quale non sempre le odierne vittime sono state e sono esenti da responsabilità.

E allora, vista la materia, visto il momento, un grande plauso al regista che è riuscito a fare un film gustoso, divertente perfino, pur non facendo nessuno sconto alla realtà. “Il tono del film” spiega “è da commedia ma non banalizza la situazione che è profondamente drammatica. Aleggia un senso di disperazione ma c’è anche molta ironia e voglia di scherzare”.

Zoabi è consapevole di essersi incamminato su un sentiero strettissimo: “È una grande sfida fare una commedia facendo i conti con la realtà israeliana e palestinese. Le persone considerano il territorio e il conflitto molto seriamente e ogni tentativo di fare una commedia può essere erroneamente interpretato come non abbastanza forte o serio. Io credo invece che la commedia lasci la libertà di discutere molto seriamente argomenti anche difficili in modi differenti”.

E allora, prima scena: siamo nel 1967, alla vigilia della guerra. Manal, affascinante donna palestinese viene inviata come spia a Tel Aviv per sedurre un altissimo ufficiale israeliano, il potente generale Yehuda per rubargli i piani di guerra. La missione riuscirà e la nostra Mata Hari diventerà la sua amante. Ma se ne innamora davvero? O finge e rimane col cuore fedele al combattente della resistenza, suo antico amore, (guarda il non caso si chiama Marwan, proprio come uno dei veri leader palestinesi, Marwan Barghouti, condannato all’ergastolo dagli israeliani e da anni a marcire in prigione accusato di terrorismo) che l’ha inviata in missione?

Ma, attenzione. Seconda scena, 2018: il campo si allarga e si capisce che quello che si vede non è la realtà perché, sorpresa! siamo sul set di una soap opera, Tel Aviv brucia, seguitissima sia dagli israeliani che dai palestinesi, tutti – e soprattutto tutte – ugualmente affascinati dalle sorti degli eroi del piccolo schermo. E così, da questo punto in avanti, la soap e la realtà si intrecciano, si mischiano, si condizionano a vicenda.

Si intrecciano, soprattutto, le vite di due personaggi: Salam, interpretato da Kais Nashif, un giovane belloccio (in certe espressioni può ricordare Gian Maria Volonté) che vive a Gerusalemme, assistente di produzione alla soap, che un giorno, passando a un checkpoint israeliano, incontra il comandante incaricato del posto di blocco, Assi, (interprete Yaniv Biton) la cui moglie è una fedelissima proprio della soap in questione.

E allora, per impressionare la consorte, l’alto ufficiale israeliano si fa coinvolgere, attraverso Salam, nella stesura della sceneggiatura. Il rapporto fra i due, la loro strana collaborazione, il rapporto anche umano che si instaura, diviene così il filo conduttore del film fino alla imprevedibile e geniale conclusione che, ovviamente, non sveleremo.

Come sempre, non è facile raccontare “il film dentro il film”. Spiega il regista: “Visivamente il film lavora sul contrasto tra le due realtà: il magico mondo pieno di colori delle soap televisive e la cruda realtà quotidiana fuori degli studi di registrazione. Abbiamo realizzato le scene delle soap principalmente in studio, girando scene melodrammatiche, con una illuminazione eccessiva, colori vivacissimi e movimenti di camera enfatici. Gli esterni invece sono stati girati con molto realismo, (filmando luoghi reali come il muro che separa le zone del paese) con le luci naturali e con movimenti più fluidi della cinepresa. Solo il checkpoint (dove risalta in tutta la sua brutalità il regime di occupazione militare israeliano) è stato ricreato apposta per il film”.

Tutti gli interpreti, sconosciuti al pubblico italiano sono decisamente bravi e credibili e portano gli spettatori nel cuore di una vicenda che coinvolge e porta a schierarsi politicamente. Il messaggio del film, forse più ottimista di quanto non narrino anche le cronache degli ultimissimi giorni, dice però che esiste ancora un margine, seppur sottile, di speranza di pace. Non c’è da augurarsi altro che abbia ragione. Certe volte, anche se molto rare, i visionari ci azzeccano.