La legge del padrone. La coppia Brizé-Lindon torna a raccontare la guerra per il lavoro

In sala dal 15 novembre (per Academy Two), “In guerra”, nuovo magnifico film della coppia Stéphane Brizé-Vincent Lindon  che, dopo “La legge del mercato” torna a raccontare di fabbriche che chiudono, lavoratori che perdono il lavoro e, in questo caso, una durissima vertenza contro una multinazionale tedesca. Passato in concorso allo scorso Cannes è rimasto incredibilmente fuori dal palmarès, ma siamo certi che il pubblico non si farà sfuggire la nostra Palma d’oro …

Ha incassato 18 minuti di applausi filati, chissà se i nostri compatrioti lo annoteranno, non essendo un film italiano… E ha fatto il record di applausi anche PRIMA della proiezione, “al buio”, sulla fiducia.

Perché En guerre è una rarità, un film operaio, non dico militante, perché è un’espressione passata di moda. Non sono passate di moda le multinazionali che chiudono gli stabilimenti, anzi sono di massima attualità, per gli operai che restano in mezzo a una strada.

La coppia Stéphane Brizé-Vincent Lindon rilancia e raddoppia, dopo quel La loi du marché che nel 2015 ha incoronato Lindon miglior attore del Festival. Insieme, in 23 giorni e con pochi soldi (perché non è esattamente il tipo di film che sbanca ai botteghini) hanno prodotto In guerra.

Due citazioni sono d’obbligo. La prima, di Bertold Brecht, apre il film: “Chi combatte può perdere. Ma chi non combatte ha già perso”. La seconda, di Brizé, spiega le sue scelte di cinema: “Kieslowski diceva che aveva smesso di fare documentari per raggiungere luoghi che la sua cinepresa di documentarista non gli consentiva di raggiungere”. I luoghi che la finzione di In guerra invece raggiunge sono le riunioni dei comitati d’azienda, le stanze di governo dove si mediano i conflitti sociali, tutte tappe della Via Crucis quando una fabbrica di 1.100 operai chiude i battenti.

Vincent Lindon è un delegato sindacale, guida un durissimo sciopero a oltranza, non vuole monetizzare l’esodo perché sono i posti di lavoro che vanno difesi. Ma tutto questo è materia di scontri interni, e con le controparti, e coi mediatori ministeriali, tra pochi attori professionisti e molti veri operai, che sanno di cosa parlano, l’hanno vissuto.

Niente bandiere ideologiche o di partito, solo contrattazione. Da due anni alla Perrin del film i dipendenti hanno accettato di lavorare 40 ore pagate 35, l’azienda è sana, i dividendi per gli azionisti sono +25 %, dicono gli operai.

Dalla Germania, la Direzione ribatte che il risultato è del + 3,8 %, contro un obiettivo del 7, i profitti non bastano, “bisogna essere competitivi”. “Sono due griglie di lettura del mondo incompatibili”, commenta il regista. Perché nel film si discute e ragiona non sugli slogan ma sui meccanismi di base, sulle maglie larghe di legge, su tutto quello che rende impossibile ai salariati vincere un braccio di ferro.

Brizé in quattro anni ha fatto tre capolavori, passa incredibilmente dal disoccupato di La loi du marché a un sublime romanzo in costume come Une vie, per tornare di nuovo alle lotte operaie e al modo distorto e banale in cui ne riferiscono i Telegiornali.

Quando in tv passa la rabbia dei lavoratori, che ribaltano l’auto del supermanager tedesco (accolta da un’ovazione qui a Cannes), l’Eliseo si defila dal negoziato. Gli operai hanno perso. Dei 13 licenziati in tronco per la bravata incolpano Laurent-Lindon, il “jusqu’auboutiste”, l’oltranzista. E lui, ripreso da una finestra col cellulare, si versa addosso una tanica di benzina e si dà fuoco.

Com’è giusto, c’è una piccola coda, per evitare il finale emotivo. Quel gesto estremo forse è servito. Ma è questo il prezzo da pagare, oggi, per il diritto al lavoro ? Non possono ridare una Palma a Lindon, ma al film sì. Una qualsiasi, un segnale. Giusto perché di questo cinema non si perda lo stampo.

fonte Huffington Post