Non mi basta mai. Edith operaia francese (sfruttata) in Marocco
È “Prendre le large” di Gaël Morel in concorso alla Festa di Roma, con una splendida Sandrine Bonnaire nei panni di un’operaia tessile francese che accetta il trasferimento in Marocco per non perdere il lavoro. Ma Edith una volta lì non trova il lavoro, trova la schiavitù. Un film drammatico e forte…
Delocalizzare è una parola di moda, collegata alla globalizzazione imperante. Vuol dire che un imprenditore, solitamente una multinazionale, decide di spostare la propria attività produttiva, magari dal cuore dell’Europa a un Paese dell’Est o di quello che chiamavamo Terzo Mondo.
Un trasloco deciso non per accrescere la qualità del prodotto, bensì per risparmiare sul costo della manodopera. Solo che è facile delocalizzare, spostare, i macchinari, i capannoni, le fabbriche. È difficile “delocalizzare” le persone. È questo uno dei temi da cui prende spunto un notevole film francese “operaio” inserito nella Festa del Cinema di Roma. Notevole anche perché aggredisce una vicenda “moderna”, vicina a tante altre della nostra agitata epoca. Il titolo è Prendre le large che vuol dire, un po’, prendere il largo, navigare verso il mare aperto, sciogliere gli ormeggi.
È quello che fa Edith, la lavoratrice tessile, quarantacinquenne, splendida protagonista (Sandrine Bonnaire) dell’opera diretta da Gaël Morel. È una donna che vive in solitudine in un comune delle campagne francesi. Ha un rapporto stretto, come tutte le madri, con l’unico figlio (Ilian Bergala) che però l’ha lasciata per andare a Parigi. Lei ha un unico conforto nel lavoro, nella socialità della fabbrica.
Arriva però, appunto, la “delocalizzazione”. Lei, però, non partecipa alla protesta delle sue compagne, non crede che l'”unione faccia la forza”. Fatto sta che le operaie vengono convocate una ad una per il licenziamento con relativo incentivo in denaro. Con un’alternativa: seguire la “delocalizzazione”, trasferirsi in Marocco.
Edith è l’unica ad accettare, anche se sa che prenderà una paga da fame. Lo fa perché il lavoro, come per ogni essere umano, è spesso la propria ragione di vita, il riconoscimento di un’identità, un modo per fuggire la dolorosa solitudine. E così accetta il Marocco, un paese non lontano che sembra un prolungamento dell’Europa eppure rappresenta un abisso, specie per quanto riguarda le condizioni di lavoro. E infatti Edith non trova il lavoro, trova la schiavitù. Come se fosse paracadutata, che so, nel Mezzogiorno italiano a raccogliere pomodori.
È vero, c’è una comunità affettuosa che l’accoglie a Tangeri, anche qui con una coppia madre-figlio (Mina e Ali, Mouna Fettou e Kamal El Amri) che sembra inseguire le vicissitudini familiari di Edith. C’è però l’azienda dove macchine da cucire scassate (qui non c’è stato trasloco dalla Francia) bruciano letteralmente le dita delle operaie, dove si mangia accampati e senza mensa, dove il sindacato è inesistente, dove si capisce che davvero l’unione potrebbe fare la forza, dove una bieca caporeparto fa licenziare Edith infilandole in borsa un pezzo di tessuto come fosse rubato. Così la francese finisce, per campare, a raccogliere fragole in una sterminata azienda agricola.
L’epilogo è po’ troppo facilone e rasserenante. Perché lei si schianta, si ammala ma poi arriva il figlio da Parigi e con lui torna a costruire un futuro diverso, magari un lavoro vero. Un film raccontato, però, nell’insieme, con grande serenità. Drammatico e forte. Un documento che coinvolge quante e quanti nel mondo, quarantacinquenni o ventenni, ogni giorno pensano di poter “prendere il largo”. E qualche volta ce la fanno, qualche volta no.
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