Riscoprire Simone Weil operaia
L’occasione è l’appuntamento di giovedì 28 gennaio all’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico a Roma. Attraverso il celebre “Diario di fabbrica” della filosofa francese, una riflessione sulla “condizione operaia” tra passato e presente, anche attraverso il film di Costanza Quatriglio, “Triangle”…
È importante in questi tempi difficili per chi lavora e per chi lotta per avere un lavoro, ritornare a riflettere su una donna, un’autrice che a queste tematiche ha dedicato una vita. È la francese Simone Weil, amata, discussa, odiata anche negli anni italiani dei successi operai. La sua riscoperta è opera dell’Aamod (Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico) che giovedì 28 gennaio (ore 18), presso la sua sede a Roma, presenta due opere, apparentemente distanti. Una è proprio un testo della Weil (Diario di fabbrica), l’altro è il film Triangle di Costanza Quatriglio. Un’opera, quest’ultima, che racconta due tragedie operaie. La prima ambientata nella New York del 1911 quando in un incendio di una fabbrica tessile muoiono 146 persone, la maggior parte operaie. La seconda a Barletta nel 2011, dove altre operaie tessili muoiono sepolte sotto le macerie di una palazzina.
Sono testimonianze di una “condizione operaia” che si ripete incessantemente nei secoli e che ci riportano immediatamente agli scritti di Simone Weil. Lei, raffinata intellettuale, insegnante di filosofia, a un certo punto della sua vita, venticinquenne, prende “un anno sabbatico”.
Decide di provare dal vivo che cosa può significare indossare una tuta, stare come addetta alle presse, nell’azienda elettrica Alsthom di Parigi. Nasce da qui, da un’esperienza condotta tra il 1934 e il 1935, il suo Diario di fabbrica, stampato poi nel 1951, come premessa a una raccolta di saggi e lettere sulla condizione operaia. Un’esperienza che sconvolge la sua vita.
Scriverà: “Come sarebbe bello lasciare l’anima dove si mette il cartellino di presenza e riprenderla all’uscita. Ma non si può. L’anima la si porta con sé in officina. Bisogna farla tacere”. E ne trarrà alcune lezioni. Come questa: “Occorre mutare la natura degli stimoli al lavoro, diminuire o abolire le cause del disgusto, trasformare il rapporto che intercorre fra ogni operaio e il funzionamento complessivo della fabbrica, il rapporto dell’operaio con la macchina, e il modo con il quale scorre il tempo durante il lavoro”. Tornerà spesso nei suoi scritti un termine come “libertà”, libertà “nel” lavoro non “dal” lavoro. Una parola cara in Italia a un dirigente sindacale e politico come Bruno Trentin che dedicherà il suo ultimo volume al titolo appunto: La libertà viene prima.
Le analisi di Simone Weil sono però molto complesse e diversificate. Alcune di grande attualità. Come questa riferita alla possibile partecipazione del lavoratore alle sorti dell’impresa: ”Sarebbe anche bene che ogni operaio, di tanto in tanto, vedesse finito l’oggetto nella cui fabbricazione ha avuto una parte, foss’anche minima; e che gli si facesse capire quale esattamente è stata la sua parte di lavoro…”.
Non la entusiasmano però i fautori di una rivoluzione, vista, anzi, come la religione, una specie di oppio per i popoli. Perché, par di capire, teme che l’attesa di una miracolosa rivoluzione possa addormentare le coscienze. Il suo ideale, ha scritto Angela Chiaino, mira a un tipo di sistema produttivo e sociale che non sia “né capitalistico né socialista”. Mentre per Monica Giorgi (in un saggio dedicato alle Sfumature anarchiche in Simone Weil) la studiosa francese “è anarchica e non è anarchica; non è comunista e non è socialdemocratica; non è cristiana e lo è ad altro ed eccedente livello…”.
È ancora d’attualità il pensiero di Simone? Certo quella sua fabbrica non c’è più. Esistono però nuove e diverse condizioni nei lavori frammentati sulle quali sarebbe necessario un “diario”, un’ inchiesta. Pensiamo alle moderne catene di montaggio come spesso vengono considerate le mansioni nei call center. Oppure a quelle campagne del Mezzogiorno dove i caporali sfruttano bestialmente nuovi schiavi provenienti dall’Est. E allora suonano non dadate certe affermazioni di Simone Weil: “finché ci sarà una gerarchia sociale stabile, qualunque ne possa essere la forma, coloro che stanno in basso dovranno lottare per non perdere tutti i diritti degli esseri umani”.
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