Nureyev, il ribelle. La leggenda della danza secondo Ralph Fiennes

In sala dal 27 giugno (con Eagle Pictures), “Nureyev. The White Crow”, il film di Ralph Fiennes che evoca arte e vita del leggendario danzatore russo (Oleg Ivenko), ispirandosi alla sua biografia scritta da Julie Kavanagh (Nureyev. La vita), pubblicata in Italia da La nave di Teseo. Volitivo, ostinato, e soprattutto un irascibile ribelle, colto nel momento preciso in cui sbocciò il suo talento al mondo: la storica tournée del Kirov nel 1961 a Parigi, dove – in piena tenuta stagna dell’Unione sovietica – il giovane danzatore scelse l’Occidente per inseguire il suo sogno di arte libera e assoluta …

Volitivo, ostinato, e soprattutto un irascibile ribelle è il Rudolf Nureyev colto da Ralph Fiennes – alla sua terza regia – nel momento preciso in cui sbocciò il suo talento al mondo. Ovvero, in quella storica tournée del Kirov nel 1961 a Parigi, dove – in piena tenuta stagna dell’Unione sovietica – il giovane danzatore scelse l’Occidente per inseguire il suo sogno di arte libera e assoluta.

Il film, Nureyev. The White Crow – il “corvo bianco” come veniva soprannominato per la sua silhouette magra e nervosa, ma soprattutto per il suo carattere ombroso – segue di pochi mesi il documentario dei fratelli Morris, anch’esso dedicato a Rudolf in occasione del 25 anniversario della sua prematura scomparsa a 54 anni, consumato dal male oscuro del XX secolo, l’Aids.

Ma per il fatto di concentrarsi su un punto focale della sua vita, il film risulta più compatto del documentario, la fiction più aderente alla realtà ricostruita dai Morris, spesso frammentaria e dispersiva nel delineare il ritratto di una personalità tanto dirompente.

Il Nureyev di Fiennes, insomma, riesce a cogliere meglio, come sotto una lente d’ingrandimento, quei particolari su cui il tartaro volante costruì la sua leggenda e che sono tutti compresi nell’arco temporale di tre lustri appena, dalla sua infanzia poverissima a Ufa, all’apprendistato di danzatore presso la leggendaria scuola Vaganova di Leningrado e infine sulle scene di Parigi, dove il “corvo bianco” spiccò il volo.

La trama intreccia i vari momenti, sulla scorta della biografia del ballerino russo che Julie Kavanagh ha scritto e fatto conoscere quasi vent’anni fa a Fiennes, che poco sapeva di balletto ma che già molto amava la Russia.

L’imprinting si vede, e si assapora nel cammeo di Pushkin, il molto cechoviano insegnante di Nureyev, che Fiennes sceglie di incarnare, togliendo la scena con una recitazione in levare, rarefatta e malinconica, al ruolo protagonista, affidato al giovane Oleg Ivenko.

Un po’ era inevitabile: dovendo optare per un danzatore credibile (e Ivenko lo è, con qualche lampo di pungente somiglianza con Rudi da giovane), l’esordio di attore era scivoloso. La molta danza citata nel film aiuta, compresa l’apparizione di Sergei Polunin nel ruolo gregario dell’amico di stanza di Nureyev.

Polunin sarebbe stato persino un carattere più vicino all’ispido e imprevedibile temperamento del ballerino russo, ma troppo poco somigliante fisicamente in un film che gioca molto sulle suggestioni di sguardi, l’avvenenza un po’ selvaggia di Rudi. E le atmosfere di una Parigi anni Sessanta, molto glamour e molto pop, sovrapposte al bianco e nero e povero dell’infanzia a Ufa.

Leggermente didascaliche le visite al museo Ermitage per sottolineare l’amore a 360 gradi per l’arte, più intriganti i retroscena di triangoli proibiti a casa Pushkin e i cenni garbati all’omosessualità emergente nel giovane danzatore.

Il resto è storia nota: l’insofferenza alla disciplina quasi da caserma del Kirov, l’ebbrezza della vita parigina. Il salto impetuoso in quell’Occidente che fece la sua fortuna di artista e il suo dolore di profugo. Un grumo di sentimenti in quello spaccato storico dell’Urss, che meglio di tutti viene espresso da Pushkin-Fiennes quando, in seguito alla defezione del suo migliore allievo, dichiara: mi vergogno.