“Pastorale americana”, il Philip Roth del Sogno infranto

È il capolavoro del grande scrittore statunitense, Premio Pulitzer nel ’98 portato al cinema dall’attore scozzese Ewan McGregor. Romanzo fiume sulla fine del Sogno americano attraverso la storia de lo Svedese, aitante imprenditore ebreo, che sembrerebbe avviato al successo nella vita privata e professionale. L’anteprima del film è stato il primo evento della Festa del Cinema di Roma…

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L’ossimoro è già nel titolo, nello spazio bianco tra le sue due parole: di qua l’idillio mitico, di là la patria del Sogno. Zoomata in quel piccolo bianco. E di qua l’evocazione di un’arcadia bucolica e rassicurante; di là, oltre lo specchio invisibile, sottile e tagliente come la lama di un coltello, il momento fatidico in cui il sogno si trasforma in un Incubo.

Pastorale americana, il romanzo di Philip Roth che vinse nel 1998 il Premio Pulitzer, e che a ottobre Ewan McGregor porterà sul grande schermo nei panni del protagonista Seymour Levlov, debuttando per l’occasione anche come regista, parte da questo velo. Dal sipario impalpabile e crudele tra vita e sogno, felicità e tragedia, persona e maschera.
Non a caso il trailer del film si apre proprio con le immagini del punto di svolta, del risveglio: una di quelle stazioni di servizio, tra l’emporio e l’ufficio postale come in America ce ne sono a milioni. Il gestore che comincia la giornata issando la bandiera a stelle e strisce. Esplosione.

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È qui, nel minuscolo spazio bianco, che ogni americano (bianco) può scegliere: o prende atto dell’incubo e si sveglia oppure lo rimuove, convincendosi, fino all’ultimo dei suoi giorni, di essere ancora cullato dal Sogno.

Mc Gregor dice di aver aspettato quindici anni la storia “giusta” prima di passare dietro la macchina da presa, una storia che “doveva” essere raccontata anche al cinema. Ma non sarà un esordio facile. Il progetto, ora prodotto dalla Lakeshore Entertainment (Jennifer Connelly e Dakota Fenning coprotagoniste), era in piedi già dal 2003, con la regia affidata prima a Phillip Noyce e poi a Fisher Stevens, poi ritiratisi, e già nel 2012 Pittsburgh era stata scelta come set dove ricostruire il New Jersey di una storia che copre quarant’anni di Storia.

Se la toglierà la maschera, Seymour? Guarderà in faccia il Sogno che si sgretola del suo Paradiso ricordato e perduto?
Cosa farà Seymour Levov è una delle domande del romanzo, romanzo in cui Roth, oltre alla Storia, all’identità nazionale e al lato oscuro di ogni nazione e di ogni individuo, gioca da maestro a frantumare gli specchi e trascinare noi lettori, dentro le impalcature dichiarate dei grandi che sostengono la struttura di questo capolavoro, su tutti Milton e Tolstoj, in un caleidoscopio di piani narrativi e di sguardi, di personaggi e di coordinate spazio-temporali, ma anche di stili e registri, dall’epica al flusso di coscienza, dall’elegia al trattato, dal grottesco al dramma.

Seymour lo incontriamo all’inizio del libro, nel ricordo di Nathan Zuckerman, ancora una volta alter ego letterario di Roth, che ci racconta come sin dagli anni della guerra, pur essendo un puro ebreo di Newark, Levov era universalmente noto come lo Svedese, perché inaspettatamente alto, biondo e bello come uno scandinavo, così prestante e atletico, e così dannatamente brillante come estremo nel football, pivot nel basket e prima base nel baseball da diventare l’idolo del suo quartiere, il “domestico Apollo” da santificare ad ogni canestro.

Eppure, modesto e sobrio, giovanottone con la testa sulle spalle, Seymour al momento giusto abbandona la popolarità dei campi da gioco per dedicarsi all’azienda di famiglia, una fabbrica di guanti. E destinato ad incarnare fino in fondo il Sogno, diventa un imprenditore di successo, rispettoso della legge, profondamente orgoglioso del suo paese, banalmente coniugato con Miss New Jersey, padre di una figlia da spot, biondissima, intelligente e precoce.

Zuckerman rivede Seymour solo molto tempo dopo, negli anni Novanta, quando lo Svedese lo contatta per chiedergli di scrivere un omaggio su suo padre. Ma quando rivede al ristorante il mito di un quartiere e di una generazione intera, ancora così prestante, così felicemente risposato e imperturbabilmente fiducioso, così compiaciuto e levigato, con tre figli maschi e la fabbrichetta delocalizzata a Portorico, Zuckerman, deluso, si convince che la vita dello Svedese debba essere andata sempre così, in ascesa lungo i gradini del Sogno, addormentato come Giacobbe, anzi, peggio: “semplice e molto comune e perciò terribile” come Ivan Il’ic. Proprietario di una “vita molto semplice e molto comune, e perciò bellissima, perfettamente in linea con i valori dell’America”.

Solo qualche tempo dopo, alla festa per la 45esima riunione degli ex allievi del suo liceo (pagine in cui Roth riesce a condensare in poche, esilaranti e tragiche pagine il destino della generazione di chi, sopravvissuto alla guerra, fu investito dall'”ondata di energia del più grande momento di esaltazione collettiva della storia americana” ) Zuckerman apprende la verità sullo Svedese: sua figlia Merry era la “terrorista di Rimrock”.

La ragazzina balbuziente e oppositiva che Seymour aveva tolto dal mondo reale, crescendola a pane e permissività, aveva ucciso e tirato bombe in quegli anni Sessanta in cui la ferocia di certi comportamenti giovanili erano ancora una novità, ma i monaci buddhisti si erano già dati fuoco e l’America era già in Vietnam. Ce l’aveva rimesso lei nel mondo reale, quel padre troppo democratico, troppo tenace e troppo buono.

E sono pagine indimenticabili quelle in cui lo Svedese la ritrova, quando Merry, ancora una volta, è davanti a lui eppure irraggiungibile, passata al giainismo intransigente, tanto che non si lava per non offendere l’acqua e davanti alla bocca, per non uccidere i germi dell’aria, porta una calza.

Un velo.

Quel velo destinato a nascondere tanto l’apparenza quanto la verità di un uomo – di una nazione – che sa di aver prolungato il suo Sogno oltre il tempo stabilito. Di chi è destinato a interrogarsi ossessivamente sul senso della felicità e del fallimento, dell’errore e della responsabilità, per potersi rispondere, senza appello e senza pietà, che vivere (come scrivere) è un infinito e implacabile sbaglio.