Un padre e una figlia, la “Pastorale” di McGregor è tutta qui
Dal 20 ottobre in sala per Eagle Pictures l’adattamento del capolavoro di Philip Roth scelto dal celebre attore scozzese per il suo esordio nella regia. Tra le tante piste del libro McGregor punta sul rapporto padre-figlia, lasciando fuori fuoco la profonda analisi sociale del romanzo, la disillusione esistenziale rispetto ai sogni e alle bugie dell’America…
A vent’anni dal film che l’ha lanciato nella galassia dei giovani attori molto promettenti, Ewan McGregor ha scelto di tornare alla ribalta non per Trainspotting 2, che uscirà l’anno prossimo, ma come regista esordiente. E bisogna riconoscergli, prima di qualunque giudizio sul suo film, una notevole dose di coraggio.
Senza un certo ardire, molta dedizione e una certa dose di coscienziosa incoscienza non avrebbe certo scelto di debuttare dietro la macchina presa portando al cinema un libro “monstre” e “cult” come Pastorale americana, premio Pulitzer 1997 (leggi recensione), di Philip Roth. Per farlo ci voleva anche quella doverosa distanza dal tema -il crollo del Sogno americano del dopoguerra allo scoccare della guerra del Vietnam e delle lotte razziali – che gli garantiscono l’esser nato in Scozia e nel 1971, come dire che ai tempi del Watergate aveva neppure un anno.
McGregor ha detto di essere “immensamente cambiato” dopo questa avventura. E cambiare è una parola interessante per parlare di American Pastoral, il film, anche rispetto al suo archetipo, il libro, da cui deve nascere diverso, pur dichiarando a gran voce sia lui che lo sceneggiatore John Romano di aver voluto lavorare sulla fedeltà, anzi sull’importanza di “essere il più fedele possibile”.
Certamente, il film è al libro molto fedele. A cominciare dai piani della narrazione e dalla costruzione a scatole cinesi e un po’ labirintiche del capolavoro di Roth. C’è dunque un film che narra di Nathan Zuckermann, alter ego dello scrittore Roth, che McGregor regista ha affidato alla maschera asciutta e sempre appropriata di David Strathairn, che durante una rimpatriata con i vecchi compagni di liceo ritrova l’amico Jerry Levov (Rupert Evans) e da lui apprende della morte, inaspettata e recentissima, del fratello Seymour, lo Svedese, l’ebreo alto biondo e tremendamente atletico di cui tutto il quartiere ebraico andava fiero, portato in processione come fosse un simbolo, lo stendardo della nuova patria, della pace post-bellica e di quel ritrovato benessere che non sembrava avere fine.
È Jerry a raccontare a Nathan che il sipario sulla commedia dorata dello Svedese, sposato con Miss Jersey all’anagrafe Dawn Levov, si era strappato per sempre, molti anni prima.
A dirgli che Seymour, dal Sogno americano si era svegliato solo per precipitare in un Incubo quando sua figlia Merry (interessanti i nomi di Roth, Dawn come Alba per una moglie che è il tramonto del matrimonio e della maternità tradita, Merry come Allegra per una figlia che è la quintessenza dell’incazzosità pervicace…) da balbuziente e tenace bambina precocissima e sensibilissima, si era trasformata in una adolescente estremista e arrabbiatissima, pronta a portare la ferocia della guerra in Vietnam, i soprusi dei bianchi sui neri e la protesta per ogni ingiustizia del capitalismo così tanto “a casa propria” da arrivare a far saltare in aria l’ufficio postale del paesino dove abitavano, uccidendone il proprietario.
La scena agghiacciante della visita “dovuta” eppure rispettosa dei coniugi Levov alla vedova segna il punto di svolta drammaturgico ed estetico del film: la fotografia si fa livida, spariscono gli esterni e i campi lunghi, il passo cambia. La pastorale si fa dramma e il dramma, velocemente, tragedia, tragedia nera, negazione della realtà, ricerca di una assoluzione che non arriverà mai più.
“Noi continueremo a volerci bene. Noi, come famiglia, sopravviveremo. Questa è la differenza tra noi e voi”, dice infatti la moglie della vittima e Dawn e Seymour, seduti sul divanetto come uno dei ritratti di Diane Arbus, emblemi di una a-normalità ormai malata e minata per sempre.
E saranno, le sue, parole profetiche. Così lo Svedese, che lo stesso McGregor interpreta con adesione dolente, con una coerenza crescente man mano che il suo personaggio abbandona il sorriso da Mulino Bianco del giovane industriale politically correct degli inizi e indossa i panni del padre incredulo, disperato e testardo, si trasforma in un segugio senza speranza: va in frantumi il matrimonio – e Jennifer Connelly sa dare alla sua Dawn tutte le sfumature dell’alba tragica – va all’aria la fabbrica di guanti, insidiata dalle proteste e dalla delocalizzazione, saltano tutti i paradigmi.
Dovendo scegliere tra le diverse piste del libro, McGregor ha scelto di mettere a fuoco il rapporto padre-figlia, affidando alla versatilità di Dakota Fanning il cammino di un personaggio sfaccettato che non gioca mai sulla simpatia con lo spettatore: prima adolescente turbata ed estrema, poi indignata terrorista in fuga e infine emarginata giainista, sempre lontana, intoccabile persino dall’amore quasi ottuso di suo padre.
Nel privilegiare l’amore tra Seymour e Merry, del loro legame indissolubile e sotterraneo, si condensano le domande esistenziali della storia, i grandi temi del libro di Roth e della narrazione, anche cinematografica (fratelli Cohen su tutti), della cultura ebraica: ineluttabilità del destino, responsabilità individuale e famigliare, giustizia terrestre e divina.
Zoomando il suo sguardo di regista sul rapporto anche edipico tra lo Svedese e la Terrorista, McGregor finisce per lasciare fuori fuoco, forse inevitabilmente, la profonda analisi sociale del romanzo, l’amarezza politica, la disillusione esistenziale rispetto ai sogni e alle bugie dell’America, il rovesciamento della sua pastorale in un giudizio universale in cui il lettore assiste al trionfo della sua rabbia innata.
Il New Yorker scrisse che “Pastorale americana è un romanzo di quattrocento pagine che finisce con un punto interrogativo: questo è ciò che lo rende grande”. McGregor, in un film dichiaratamente fedelissimo, proprio all’ultimo sceglie di cambiare, di tradire. Anche lui, alla fine, diventa Merry, figlio ribelle che “uccide” con un gesto fortemente edipico il “padre” Roth: dà al finale del suo film un colore caldo e riconduce quella linea spezzata e impazzita ad un cerchio. Trasforma, insomma, quel punto di domanda in un punto esclamativo. Una scelta più da Obi-wan Kenobi che da Mark Renton.
Molti entusiasti lettori del libro prenderanno un po’ le distanze dall’operazione, eppure questo è un film da vedere; un film denso e controllato (non indulge mai, negandosi persino la colonna sonora), ottimamente recitato e – si sente – molto amato da chi lo ha ardentemente e testardamente voluto. Di questi tempi, non è poco.
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