Il restauro di una rivoluzione fallita. “San Michele” dei Taviani alla Festa con Scorsese

Mercoledì 24 ottobre alla Festa di Roma (ore 16, sala Petrassi) Martin Scorsese e Paolo Taviani presentano “San Michele aveva un gallo” in versione restaurata. Il Centro sperimentale riporta il titolo centrale del 1972: storia di Giulio Manieri, capo anarchico egocentrico e perdente, fuori tempo, che viene arrestato e inizia un dialogo con se stesso. Politico, intimo, sentimentale…

Paolo e Vittorio Taviani installano Lev Tolstoj nell’Italia del 1870, in Umbria a Città della Pieve, il paese natale del Perugino. Dall’ispirazione a Il divino e l’umano dell’autore russo nasce San Michele aveva un gallo, titolo imprescindibile del 1972, che viene presentato al Festival di Roma nella versione restaurata del Centro sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale. Girato dopo Sotto il segno dello scorpione, che inscenava l’utopia fallimentare della società degli Scorpionidi, e prima di Allonsanfàn, il racconto è percorso subito dall’aria della sconfitta.

Nel 1870 Giulio Manieri, interpretato da Giulio Brogi, volto feticcio dei registi, è il capo degli internazionalisti che cerca invano di vincere la diffidenza di un piccolo paese e innescare la sommossa. “Vogliamo fare piazza pulita dell’autorità”, teorizza. Ma la sua rivoluzione è fallita in partenza: guarda due compagni che camminano, “se mantengono il passo unito per altri dieci metri tutto andrà bene”, e all’ultimo uno si china per allacciarsi le scarpe. Il presagio è fosco. Giulio viene arrestato, prima condannato a morte e poi commutato in ergastolo proprio davanti al plotone (come accadde non a Tolstoj, ma a Dostoevskij), ma non è detto che sia meglio: la folla grida viva il re, perché ha concesso la grazia, e dopo l’insurrezione fallita la vera pena è restare vivi.

Giulio va in prigione. Qui inizia una lunga seduta di autocoscienza con se stesso, autoscrittura di sé e del proprio ideale, in cui il capo anarchico si fa domande e dà risposte. La cella è il suo deserto dei Tartari: in attesa dell’impossibile torna alla filastrocca dell’infanzia, immagina il rancio come cibo raffinato, esce con la mente ma non si muove di un millimetro.

Nel dialogo con l’io incarna tutte le posizioni, in un’interrogazione interiore che da politica si fa intima: “Chi hai mai accolto nel tuo cuore?”, “Quando si lavora per gli altri si lavora sempre per se stessi”. Così si rivela la sostanza velleitaria del gesto rivoluzionario, l’egotismo dietro l’azione, la comunità che non segue l’insurrezione perché – di fatto – non è convincente e nessuno sa spiegarla.

È cinema post-sessantottino, naturalmente, che parla della storia moderna per alludere a quella contemporanea; cinema che dal politico arriva al sentimentale, come sempre nei Taviani, e come avviene perfino quarantacinque anni dopo in Una questione privata, dove il partigiano Milton avvolto nella nebbia combatte non contro i fascisti, ma una guerra d’amore.

Nell’ultima parte Giulio viene trasferito e incontra, nelle acque di Venezia, altri prigionieri politici come lui: scandisce il suo nome, ma essi non gli riconoscono alcun ruolo. Ormai lo sguardo ha dirazzato: “Non avevo mai visto la laguna”, dice una prigioniera. La rivoluzione è archiviata, il presunto leader superato. Non resta che scriversi da solo il proprio fine pena, nell’inevitabile suicidio. I Taviani stanno in uno spazio tra Bresson e De Oliveira: prendono dal rigore del magistero bressoniano e dalla centralità del lusitano, ma il crepuscolo dell’utopia e il sentimento devastante che ne deriva è iscritto nei cineasti di San Miniato.

La distanza tra teoria e prassi, il capo egocentrico, il divario con il popolo e l’essere fuori tempo: “Questa volta è andata così, la prossima andrà meglio”, è la chiosa, un’indulgenza consapevole perché sa bene che non ci sarà un’altra volta. San Michele aveva un gallo viene proiettato mercoledì 24 ottobre (Sala Petrassi, ore 16) in presenza di Martin Scorsese e Paolo Taviani, dopo la scomparsa di Vittorio, lo scorso aprile a Roma.