Se la libertà ha il gusto di “mal di malavita”. Nel libro scritto da dietro le sbarre

In libreria “Santa Suerte-Una storia underground” di Mauro Armuzzi (Compagnia Editoriale Alberti), romanzo autobiografico di un ex ragazzo della periferia romana, condannato per narcotraffico. Un racconto senza infingimenti, senza edulcorazioni – sfiorando quasi la brutalità – in cui ripercorre una vita di trasgressioni, tra droghe, sesso e spaccio nella convinzione che i soldi ti liberino dalla schiavitù dei soldi. Una vita tirata fino all’inverosimile, fino all’arresto.  Fino a questo suo libro scritto dal carcere …

“Paura e delirio a Las Vegas” di Terry Gilliam (1998)

La colpa, la pena ed ovviamente il riscatto. La formula, davvero un po’ stantia, continua a fare le fortune di chi scrive dal carcere e sul carcere. A suo modo è addirittura diventata un genere. Qui, però, fortunatamente, quella formuletta banale non si può, né si deve applicare. Per tanti motivi. Perché la “colpa” in qualche modo è rivendicata, perché il riscatto non arriva all’improvviso, come se dipendesse da un’illuminazione, ma è sottesa, è intuibile fin dalle prime pagine. Resta la pena, la condanna. Che qui diventa però solo il tempo che si può dedicare ai pensieri ma non ne sminuisce minimamente l’inutilità.

Il “qui” di cui si parla è un libro: Santa Suerte-Una storia underground di Mauro Armuzzi, edito dalla Compagnia Editoriale Alberti (nella collana “Il paese senza cielo” curata da Giorgio Poidomani).

L’autore, Mauro, 39 anni, è stato in carcere per otto anni, con una pesante condanna per narcotraffico. Non è ancora libero del tutto anche se non deve più stare in una cella, per le misure anti covid. E in queste 352 pagine lui si racconta. Senza infingimenti, senza edulcorazioni. Si racconta quasi sfiorando la brutalità.

Ripercorre gli esordi a Londra, la nascita del gruppo. Le serate, le nottate che durano 48, 60, 72 ore a base di tutto ciò che può provocare alterazione, a base di sesso. Di trasgressione. Di musica, che diventa un tutt’uno con le droghe che ingerisci. Il gruppo, la comunità. La sua comunità di amici, il patto che li unisce. La scelta di non accontentarsi dei piccoli rifornimenti per le feste londinesi ma di provare ad entrare nel grande giro. Provare e riuscirci.

Il tutto, però, non nasce dal banale desiderio di ascesa sociale, di ricchezza, come vorrebbe la facile sociologia che etichetta chi è nato nella periferia romana con vista sul mare. No, perché la scelta di Mauro Armuzzi – già indiscusso leader di quel gruppo di ragazzi e di ragazze a Londra – è ragionata, voluta. Decisa. In qualche modo – anche se ai più potrà suonare come un’eresia – la sua è una scelta “politica”.

Vuole vendere, trafficare perché è la sua via alla libertà. Vuole soldi per svincolarsi dalla schiavitù dei soldi, così crede. Vuole vendere, trafficare per avere una condizione che consenta a lui e ai suoi amici di sottrarsi alle imposizioni delle regole, dei tabù. Alle convenzioni. Vuole arrivare a costruirsi – e va sottolineato, lo ripete sempre: per sé e per il gruppo – uno spazio che gli consenta di sottrarsi allo Stato. A questo Stato.

Ed il racconto – duro, aggressivo, a volte fino al limite della sopportazione – si sposta alle Baleari, a Berlino, poi ritorno a Roma, poi ancora in India, con digressioni mistiche. Per poi riprendere per l’Europa, il Marocco e così via. Con una descrizione minuziosa di droghe e affini che farebbe la fortuna di un trattato di chimica e biologia. Con una particolarità però: il rifiuto dell’eroina, dell’eroina iniettata con una siringa. Perché gli porterà via, un caro amico, uno del gruppo. Il primo di una lunga serie di addii.

Una vita tirata fino all’impossibile. Senza pentimenti postumi ed ipocriti. Perché Mauro è consapevole di essere stato affetto da un male. Che non si sa fino a che punto sia curabile: “il mal di malavita”. Cos’è? Di che si tratta? Lui, Mauro Armuzzi, lo spiega nel libro partendo da una citazione colta, Il Canto del Boia di Norman Mailer: quando racconta di Gary Gilmore che appena uscito dal carecere assassinò due persone. E quel “mal di malavita” è qualcosa di complesso: è un’attrazione, una dipendenza che si manifesta dalle cose più semplici – addirittura passare senza motivo col rosso al semaforo – fino al desiderio costante, quotidiano di “fottere” lo Stato. Sempre e comunque.

Una vita tirata, allora, fino all’arresto. All’arresto definitivo. Suo e dell’amico-fratello, Carlo, “Charlie”, nel libro. E alla condanna. Che misteriosamente dovranno scontare anche i suoi genitori (con una parentesi: in carcere c’è finita anche la madre, “colpevole” solo di averlo ospitato a casa. E c’è rimasta in carcere nonostante fosse gravemente malata, nonostante mille certificati spiegassero che la sua condizione era incompatibile co la reclusione; ma questo è un altro discorso).

E poi il carcere. Le riflessioni dentro quella cella. Cella condivisa anche col padre. Qui il ritmo del libro si fa meno incalzante. Forse un po’ prevedibile. E non mancano neanche pagine dal sapore didascalico. Ma c’è una sensazione sopra le altre che si ricava dalla lettura. E che magari non è dichiarata: è che le riflessioni di Mauro, la scelta maturata in carcere di assecondare le sue nuove aspirazioni – di assecondare i suoi “talenti”, scrive ad un certo punto, al plurale, perché Armuzzi sempre insieme a Carlo Bnà forma anche un duo musicale, i De Core –; la scelta del Mauro post-trafficante, insomma, nasca dall’analisi di quel mondo. Gerarchico, con una gerarchia inumana, bestiale. Un dominio violento, irrispettoso di qualsiasi legame. Di qualsiasi amicizia e patto. Falso. Regolato solo dalla legge del profitto. Esattamente come quello stato di cose che voleva combattere quando era un ragazzo a Londra.

Ed ecco la coerenza di Santa Suerte. Sì, perché tutto il libro è soprattutto questo: la storia dei mille modi con i quali si aspira alla libertà. La strada dei mille modi coi quali ciascuno si immagina la libertà. Per sè ed il proprio gruppo. Le vie alle libertà. Che vanno raccontate, non giudicate.

Ps: chi scrive è menzionato nei ringraziamenti finali. C’è un piccolo errore non grave – mi si attribuisce di aver lavorato in un giornale invece che in un altro – ma quel che conta sono quei pomeriggi passati a Rebibbia, registrando le puntate della radio dal carcere. Con lui, con Carlo, con Giorgio e con tanti altri. Pomeriggi passati raccogliendo le speranze ed i sogni di chi non poteva poi andarsene come me ma doveva rientrare in cella. E Mauro quel sogno, uno dei suoi sogni, l’ha realizzato. Vale più di qualsiasi cosa.