Se un pomeriggio di giugno, uno spettatore. Cronaca del ritorno in sala (post Covid)


 

“Shirin” di Abbas Kiarostami

Cinema, interno, giorno. Soprattutto interno, finalmente. Sono ancora poche le sale che hanno riacceso i proiettori, ma questo più che una difficoltà sembra essere, a suo modo, un incentivo. La sala ora bisogna cercarsela, farsi magari anche un po’ di strada, in poche parole bisogna volerla al punto da rinunciare alla dittatura della comodità.

All’entrata spiegano come muoversi: «si entra con la mascherina, la si può togliere solo da seduti, bisogna stare ad almeno un sedile dagli altri spettatori». Si affaccia il fantasma di Cortázar e delle sue spassose Istruzioni per salire una scala, anche il cinema adesso è un luogo da maneggiare con cura, come fosse un oggetto fragile e misterioso. Oltre il paradosso però, è impossibile non sentire una timida commozione nel tornare a chiedere un biglietto, nel farselo strappare mentre ci viene sussurrato un «buona visione» più sincero del solito, mentre ci si appresta all’entrata in sala guardando le locandine appese ai muri, mentre finalmente si scorgono le prime poltroncine.

Se poi si fa l’errore di fermarsi a riflettere, la commozione finisce per sopraffarci. Sì, perché più ci si riflette e più si capisce che è un momento gigantesco. Dopo quel fatidico 28 dicembre 1895 non esiste un solo periodo storico in cui le sale si siano fermate all’unisono. Gli schermi, infatti, da allora sono rimasti accesi nonostante guerre mondiali, occupazioni straniere, bombe atomiche, crisi economiche, rivoluzioni.

Non esiste una sola generazione che, da che il cinema è stato inventato, abbia dovuto farne a meno tanto a lungo ad ogni latitudine. Ecco, se si commette l’errore di formulare questo pensiero prima di entrare in sala, finisce che si varca la soglia con gli occhi già umidi, il che provoca da parte degli altri avventori di questo mondo dimenticato sguardi straniti o espressioni torve (possiamo in fin dei conti essere sicuri che una lacrima non sia portatrice di virus?).

L’impatto con le file di poltroncine vuote è di una familiarità mozzafiato, tutto in una volta ci si ricorda di quanto sia banale quello spettacolo, ma nella sua semplicità sembra anche più bello. Poi la scelta del posto, con quel suo senso rituale, stavolta ancora più studiato perché oltre alla variabile schermo, a cui deve sempre sommarsi l’attenzione all’altezza di chi ci si siede di fronte, bisogna anche calcolare la distanza.

Si deve essere lesti ed individuare il posto giusto, muoversi a passi lenti ma decisi, non fidarsi degli altri che sono intorno a noi (ma questo il virus ce lo ha insegnato fin troppo bene). Una volta arrivati alla poltroncina prescelta è fatta, si abbassa il seggiolino (con annesso scricchiolio che un divano non potrà mai riprodurre) e, immensa libidine, ci si toglie la mascherina. In quel momento tutto è di nuovo come nulla fosse successo, il cinema è esattamente come lo avevamo lasciato.

Finalmente le luci si spengono, si affonda nel seggiolino, la signora dietro di noi fa ancora qualche battuta col suo accompagnatore e noi non abbiamo alcun potere di stoppare il film o mandarlo indietro. Perché poi anche le imperfezioni ci sono mancate, non solo la signora che ride ma anche i ritardatari, chi si alza per andare in bagno, il colpo di tosse che spesso ne chiama un altro dalla parte opposta della sala, chi si dimentica il telefono acceso e si affretta a disattivare la sveglia che ha preso a suonare; questi quasi cliché in fondo sono lì a ricordarci che il cinema non è e non può mai essere solitudine.

Il film passa quasi in secondo piano, esistono casi in cui la sospensione dell’incredulità è un delitto e questo è uno di quelli. Bisogna essere ben consapevoli di dove si è, del momento in cui si è, del fatto che le immagini sono immensamente più grandi di noi e non più sullo schermo ridotto di una televisione o di un computer.

Quando ci si alza a film concluso, mentre ci si incammina verso l’uscita si è come rinvigoriti. Sì, si torna al mondo di mascherine, gel per le mani, guanti e tamponi che abbiamo imparato a conoscere in questi mesi, ma abbiamo dalla nostra un qualcosa in più.

Io me n’andrò zitto / tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto. Ma sì scomodiamo anche Montale, perché la sensazione è proprio quella di chi ha scoperto uno scorcio di normalità in una pandemia che sembrava aver assorbito tutto quanto.

Il cinema è sempre stato il regno di un altrove fantastico, lontano dalla normalità. Quando però la normalità viene stravolta come in questi mesi, anche il cinema si ridimensiona. Così che tornare in sala ci appare un atto di resistenza umana al terrore virale, tanto da ricordandoci, alla fine, cos’è la normalità. E magari anche chi siamo.


Tobia Cimini

Perditempo professionista. Spende il novanta percento del suo tempo leggendo, vedendo un film o ascoltando Bruce Springsteen. Nel restante dieci, dorme.


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