“Tito e gli alieni”, la fantascienza intimista di Paola Randi. A Ortigia FilmFest
Appuntamento giovedì 12 luglio al festival di Ortigia (Siracusa, fino al 15 luglio) con “Tito e gli alieni”, opera seconda di Paola Randi, presentata al Torino Filmfest e già uscito in sala (con Lucky Red). Due bambini orfani accolti dallo zio scienziato nel deserto del Nevada alla ricerca degli alieni: se gli affetti sono sottoterra, le voci dal cielo possono trattenere la memoria dei defunti. Una via italiana alla fantascienza…
Due bambini, Anita e Tito, che restano orfani per la scomparsa del padre. Un professore, Valerio Mastandrea, che fa esperimenti nel deserto del Nevada ai piedi dell’Area 51. Il padre, preparandosi alla morte, affida i figli allo zio che non hanno mai visto. Da anni l’uomo è impegnato nello sviluppo di una macchina che cattura onde planetarie, la quale – in teoria – può riuscire a comunicare con gli alieni; nella pratica egli spera di riascoltare la voce della moglie, anch’essa defunta, ritrovandola dispersa nello spazio.
È un’ipotesi italiana alla fantascienza Tito e gli alieni, il film di Paola Randi al Torino Film Festival nella sezione Festa Mobile. La regista di Into Paradise sonda una possibilità nazionale per il genere hollywoodiano della science fiction intimista: come ne L’ultimo terrestre di Gipi, anche qui gli archetipi della fantascienza vengono piegati a un discorso intimo e personale, in particolare sull’elaborazione del lutto. Come superare il dramma della perdita, come andare avanti e cosa vogliamo diventare sono i nodi complessi che permeano il racconto, seppure in forma di commedia.
Gli alieni sono figurati: per il professore i nipoti, mai visti finora, per i bambini i veri alieni sono la condizione di orfani e la nuova realtà intorno, in cui non si riconoscono: “Dov’è Lady Gaga?”, urla Tito nel deserto, rilevando l’amara smentita dello stereotipo mitico sull’America.
Tito, sette anni, è rimasto solo con la sorella e la verità è dura da sostenere: preferisce credere che il padre sia un’entità, qualcuno con cui parlare ancora, a cui rivolgersi quando opportuno. Non gli resta che costituire una famiglia disfunzionale (altro grande tema del cinema americano: vedere – per esempio – tutta la filmografia di Noah Baumbach), ovvero creare un nucleo nuovo dopo il dissolvimento dei legami diretti, guardare all’eventualità di uno zio-padre, concretizzare il fatto impossibile di una seconda famiglia. Per farlo i personaggi devono uscire dalla loro paralisi, una stasi che riguarda tutti: i bambini segnati dal lutto, ovvio, esattamente come Mastandrea che ha perso la moglie e si rifugia nel deserto per ritrovarla. È qui che si inseriscono gli alieni: in questo scenario gli extraterrestri offrono l’opportunità di parlare con i cari estinti, configurandosi così come intervento decisivo per sbloccare la propria vita interiore.
Se gli affetti sono ormai sulla terra, dunque, per inversione non resta che guardare al cielo: c’è la possibilità di ritrovarli lassù. Le voci dallo spazio allora come tentativo di trattenere i ricordi: “Quando si perde la memoria si smarrisce anche l’identità e la realtà si ricompone e assume caratteristiche nuove – dice la regista -. Chi perde la memoria non si riconosce e spesso non riconosce i suoi familiari (…). Ho immaginato la realtà vista con gli occhi di qualcuno che aveva perso la memoria. Non poteva che nascere un film di fantascienza”.
Oggetto anomalo nel cinema italiano, valorizzato dalla presenza di Mastandrea, Tito e gli alieni vanta una singolare ambientazione – il deserto – e un’intelligente gestione degli effetti speciali, che offrono un risultato semplice e credibile, senza sperpero ma con la forza delle idee, che nella costruzione della macchina corteggia il trovarobato e l’assemblaggio homemade alla Michel Gondry.
Paola Randi gioca sullo stereotipo, solleticando ufologi e fan dell’Area 51, e riflette ironicamente sulla figura dell’alieno mentre la sta inscenando: basti la scena in cui i protagonisti entrano nell’area proibita indossando a loro a volta maschere di extraterrestri.
L’autrice mostra peraltro consapevolezza del suo fare cinema, inteso come gesto divertito e malinconico, con le ombre dei defunti che infine si materializzano come figure su una pellicola: ma è cinema muto, perché essi non parlano, e si dissolvono come alla fine di un film. Dopo averli visti però si prende consapevolezza di sé e si può finalmente accettare la propria condizione, in un omaggio esplicito al potere del racconto cinematografico come farmaco dell’anima.
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