Tre minuti poco prima dell’apocalisse. Il cinema che non perde la memoria vince UnArchive Found Footage Fest

Trionfa all’UnArchive Found Footage Fest, Three Minutes – A Lengthening” di Bianca Stigter folgorante riflessione sul valore di testimonianza del cinema e il potere delle immagini in tempi di fake news come i nostri (con un libro come inizio). Si parte da tre minuti d’epoca: una cittadina polacca a maggioranza ebraica nel 1938 per poi ricostruire, come in un thriller, cosa è stato di tutte quelle persone che, appena un anno dopo, sono state travolte dall’orrore nazista. Il film già presentao alle Giornate degli Autori 2021 è stato portato in sala dalla coraggiosa distribuzione Mescalito Film.

Dal nero dei titoli di testa emergono le riprese a colori di una piccola folla che si accalca divertita e compiaciuta davanti alla macchina da presa.

Monelli che ridono e fanno smorfie e adulti che si mettono in posa con dignità e contegno. Ma poi dalla strada acciottolata e polverosa si passa ad interni domestici, poi di nuovo alla strada. Se i più vestono umilmente, la macchina da presa segue anche un gruppetto in abiti della festa all’uscita dalla Sinagoga.

Sono tre minuti di ingenue riprese di un film di famiglia girato nel 1938 per le vie e tra la gente della comunità ebraica di Nasielsk, una cittadina polacca a una sessantina di chilometri a nord di Varsavia; tre minuti di pellicola che Glenn Kurtz ha scovato casualmente nel 2009 in Florida, rovistando nella casa del padre.

Da questo ritrovamento, simile a tanti altri tesori da soffitta, è nato il suo libro pluripremiato Three Minutes in Poland: Discovering a Lost World in a 1938 Family Film, che esplora il mondo perduto del titolo a partire da quel filmato amatoriale girato da suo nonno durante un viaggio in Europa nel ‘38.

E dal libro siamo giunti al documentario, passato alle Giornate degli Autori di Venezia 2021.
Realizzato da Bianca Stigter e prodotto dal marito Steve McQueen (sì, quel Steve McQueen, il regista di 12 anni schiavo) questo Three Minutes – A Lengthening rappresenta un’operazione difficile e appassionante per diversi motivi.

Costruire un documentario di circa 70 minuti partendo ed espandendo (il Lenghtening del titolo) unicamente i tre minuti di girato originale, necessariamente restaurato, mondandolo in loop ma anche evidenziandone dettagli e fotogrammi è cosa molto vicina alla video arte e ad un’operazione concettuale. Ed è questa miscela di linguaggi che rende il documentario un’opera singolarmente bella. E quasi un thriller, per la minuziosa ricerca di indizi. Un po’ come accadeva a Thomas/David Hemmings in Blow Up di Michelangelo Antonioni, che pensando di avere fatto solo delle foto rubate di una coppia di amanti in un parco, aveva in realtà fotografato un delitto. Ecco il senso del film: la ricerca della verità nelle immagini e attraverso di esse. La scomposizione minuziosa del fotogramma diventa occasione ed innesco per molteplici piani di lettura.

Un ruolo chiave lo gioca la forza del montaggio di Katharina Wartena che, nel dare un senso diverso ad ogni passaggio delle stesse immagini, impone una didattica dello sguardo che accompagna lo spettatore nell’esplorazione delle molteplici significanze del medesimo oggetto.

Bianca Stigter trasfigura le immagini serene di oltre 80 anni fa in una meditazione su cosa significhi cristallizzare sulla pellicola una comunità perduta. «Three Minutes – A Lengthening, – dice la regista – è un esperimento che trasforma la scarsità in qualità. In un’epoca segnata dall’abbondanza di immagini che non si guardano mai due volte, abbiamo fatto esattamente il contrario: in modo circolare, vediamo gli stessi momenti ancora e ancora, convinti che ogni volta possano produrre un significato diverso. Il film inizia e finisce con lo stesso inedito found footage, ma la seconda volta lo si guarderà in modo differente»

Invece di una pellicola amatoriale da 8 mm, David Kurtz aveva girato nel formato più avanzato dei 16 mm e questo ha dato oggi modo a Bianca Stigter di svolgere il lavoro investigativo necessario per recuperare da quei frame volti e storie di un villaggio distrutto solo un anno dopo dall’Olocausto.

Alla fine del 1939, infatti, le persone visibili in quelle riprese, così come tutti gli ebrei di Nasielsk, furono deportati nei ghetti, quindi inviati al campo di sterminio di Treblinka. Dei 3000 abitanti solo un centinaio di persone è sopravvissuto.

Glenn Kurtz ha donato quella pellicola al Museo dell’Olocausto degli Stati Uniti, che l’ha restaurata e inserita sul sito web dell’istituzione. Era da poco on line quando Kurtz ha ricevuto l’email da una donna che nelle immagini ha riconosciuto suo nonno, Maurice Chandler, che all’epoca aveva 13 anni e si era salvato fuggendo grazie a documenti falsi.

La voce matura di Chandler che descrive le immagini di quel se stesso ragazzino crea un commovente corto circuito con il passato: “Questi sono i berretti che indossavamo, i ragazzi della yeshiva”, ricorda Chandler segnalando anche come la presenza della macchina da presa “ha sconvolto la gerarchia sociale”, riunendo persone che non sarebbero state l’una accanto all’altra nella vita di tutti i giorni.

L’essenza del documentario è quindi soprattutto nella capacità di raccontare in modo concettuale, sperimentale quasi, la relazione tra la città, quella comunità e il suo destino. Vengono in mente i lavori sulla memoria di Christian Boltanski. Primi piani intensi del tessuto degli abiti femminili sono mostrati con una voce fuori campo che racconta come la fabbrica di bottoni di Nasielsk sia stata successivamente espropriata dai nazisti nel 1939 leggendo anche da un resoconto scritto della requisizione nazista e di quando gli ebrei furono radunati nella Sinagoga , frustati e fatti marciare nel fango verso i treni.

Mentre Stigter monta il filmato originale di Kurtz, a volte al rallentatore, a volte fermo, avanti e indietro, per spremere significato da ogni singolo fotogramma, la distanza originariamente creata guardando le facce, i vestiti e le acconciature di 83 anni fa precipita lo spettatore nella cruda realtà di quel momento.

Bambini buffi e sereni che sorridono mentre ci sbertucciano attraverso la macchina da presa o persone che allungano il collo per entrare nell’inquadratura significa osservare l’umanità consueta come esiste sempre in presenza di una cinepresa, soprattutto se non se ne è mai vista una.

Però noi non possiamo ignorare quei volti che ancora non sapevano dell’orrore in agguato, che non potevano immaginare. Noi sappiamo e per questo una mano col palmo aperto davanti all’obbiettivo è in un primo momento un gesto scherzoso ma col ripetersi dei passaggi e col fermo immagine che ci impone di guardare diventa una premonizione dell’orrore che verrà di lì a poco. Una mano tesa che implora invano.