Se tre ore di Kechiche vi sembran poche

Passato in concorso “Mektoub, My Love: Canto Uno” film fluviale (180 minuti) di Abdellatif Kechiche ispirato al romanzo di formazione autobiografico del francese François Bégaudeau (suo anche il romanzo La classe, da cui il film di Laurent Cantet). Il regista segue il bellissimo e giovanissimo Amin nelle sue bisbocce vacanziere, tra i rimorchi in spiaggia, il bar di quartiere e il ristorante arabo-asiatico gestito dalla tribù familiare tunisina… Insomma, una gran noia…

Come si chiama “quella cosa lì” nel giornalismo purgato? Amplesso, scena di sesso, sequenza “bollente”? Gli eufemismi si sprecano, e contemplano le varianti “hard”,”osé”, “a luci rosse”…  Comunque vogliate chiamarla, una convincente esercitazione di quel tipo di attività, in tempo reale, inaugura i 180 minuti di Mektoub, My Love: Canto Uno, di Abdellatif Kechiche.

È lo stesso imbarazzo lessicale che il regista franco-tunisino provocò a Cannes col suo La vie d’Adèle Palma d’oro. Non ho mai capito perché i termini più efficaci che si usano comunemente nel linguaggio parlato siano banditi dai media.

La grande virtù di Kechiche è la capacità di riprodurre la vita com’è. Non era di Hitchcock quella battuta geniale, “il cinema è la vita senza le parti noiose”?

Kechiche nelle parti noiose ci sguazza, sono il suo marchio di verità. Direttamente da questo deriva il suo grande vizio, cioè l’incontinenza. Legioni di produttori combattono da anni per imporgli durate accettabili. Non c’è verso. Il nostro Andrea Occhipinti ne ha fatto dura esperienza ai tempi di Couscous.

Tre ore sono un’eternità soprattutto per questo Mektoub (in arabo vuol dire destino), che segue il bellissimo e giovanissimo Amin nelle sue bisbocce vacanziere, tra i rimorchi in spiaggia, il bar di quartiere e il ristorante arabo-asiatico (geniale!) gestito dalla tribù familiare tunisina.

Romanzo di formazione, quindi, basato sull’autobiografico La blessure, la vraie di François Bégaudeau (suo anche il romanzo La classe, da cui il film di Laurent Cantet).

A parte una mezz’oretta occupata dal parto di due pecore, istruttiva ma non proprio pregnante, Kechiche si dedica con grande impegno a documentare i magnifici fondoschiena (va bene così ?) delle fanciulle in fiore draguées, cioè rimorchiate, soprattutto dal cugino Toni, un figone anche lui, dongiovanni seriale. Le donne in sala invocavano, per una volta, la parità sessuale a rovescio: perché ignorare i fondoschiena maschili ?

Il lato B che si ritaglia la parte del leone comunque è quello spaziale di Ophélie Bau, la coprotagonista del film. Nuda o (relativamente) vestita, mentre balla o mentre munge le capre della sua fattoria, farebbe faville come testimonial nelle campagne contro l’anoressia. Alla fine delle tre ore però ti sfiora un fugace sospetto: che questa volta il bravo Kechiche ci abbia preso per i fondelli? Mai espressione fu più appropriata.

la recensione di Teresa Marchesi è anche su Huffington Post.