Tutti i colori di Istanbul nel libro di Ferzan Ozpetek
“Rosso Istambul” – già nelle sale nell’adattamento cinematografico – non è il solo colore della città natale di Ferzan Ozpetek. Nel suo libro di esordio il regista di origini turche torna con la memoria sulle rive del Bosforo, tra il bianco e nero della malinconia e il blu del cielo in cui “sentirsi aquilone”. Difficile pensarlo come un romanzo. È piuttosto un taccuino di appunti senza trama in cui giocare alla finzione del ricordo…
Immagini che riportano alla memoria ricordi fragili e preziosi, un giardino odoroso di tigli, lo smalto rosso sulle unghie della madre, le grandi finestre che si affacciano sul Bosforo e quell’enorme distesa di blu.
Un mare solcato e rigato da correnti nelle acque del Mar di Marmara e riflessi che come tanti specchi rimandano e frammentano ricordi e compongono il gioco del perdersi e ritrovarsi.
Ancora adolescente, asciugamano e spiaggia, e il racconto di Yusuf, suo coetaneo, amico, bello e triste, il suo primo bacio.
Rosso Istanbul, un centinaio di pagine (Strade blu, Mondadori) nelle quali attaverso brevi spunti, tracce rimescolate, flashback e memorie, Ferzan Ozpetek ripercorre alcuni episodi della sua vita passata e presente vissuti nella città turca.
La zia Betul, che insegna a far volare gli aquiloni e poi la zia Güzin, che cucina dolci squisiti e poi Neval amica di sempre. La figura della madre che insegna a non diffidare di “Greci e Armeni”, una madre che insegna che “Non ci sono vinti o vittime, dove c’è chi si batte per i diritti degli altri”. Nello scorrere dei flashback si avvicendano più personaggi e si intuisce un ascolto di un vissuto passato e riproposto presente.
In alcuni momenti Istanbul è ritratta in bianco e nero. Una Istanbul, città della malinconia, anzi dell’hüzün, un sentimento a metà fra la tristezza e la nostalgia. Nella lingua turca, Hüzün indica le sere piovose d’inverno e i gabbiani nelle albe malinconiche.
In altri momenti e per contrasto la città viene coperta di colori, il blu della Moschea di Rüstem Pasha, avvolta di maioliche colorate di Iznik dell’ Anatolia, l’azzurro delle giornate in cui il cielo “ti fa venir voglia di diventare aquilone”.
Ma in queste descrizioni di Istanbul c’è anche tanto blu e rosso come nelle descrizioni dei tramonti sul Bosforo. E il rosso dei carrettini dei venditori ambulanti di simit: ciambelle calde ricoperte di sesamo. Il rosso fiammante dei vecchi tram. Il rosso dello smalto sulle unghie della madre. Il rosso della tuta Adidas, regalo per lei, è il rosso infatti che vuole, è il rosso a renderla felice.
I colori, tutti i colori che tornano dalla memoria a riempire il presente.
Aperitivi di Cinzano e le zie, che insegnano il gioco a imitare le «femmes fatales»: «Lascia che il fumo ti avvolga il viso» spiegava zia Betul. «Riprova.»
Una parte del libro è rivolta al presente e non solo al risveglio del ricordo, “una donna vestita di rosso che va incontro alla polizia, vorrebbe parlare, dire qualcosa…. Ha un abito scarlatto che è come una bandiera: un vestito più adatto…per passeggiare in riva al Bosforo, o stare seduta al tavolo di un elegante caffè di Bebek. … Viene investita in pieno dal getto d’acqua, ma non cade, non vacilla. È come se quel vestito fosse un’armatura. La forza delle idee. O forse… solo di un abito rosso…”
Difficile pensarlo come un romanzo questo Rosso Istanbul di Ferzan Ozpetek. Ma piuttosto un taccuino di appunti per affidare alle parole il gioco della finzione del vissuto e giocare senza trama alla finzione del ricordo.
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