Tutto su mio figlio. Costanza Quatriglio al cuore del popolo dimenticato

In sala dal 20 settembre (per Ascent Film), “Sembra mio figlio”, nuova incursione nel cinema di finzione di Costanza Quatriglio. Un film di parole, con un poeta afghano come interprete ed una storia vera da raccontare, universale ed eterna come la ricerca di una madre, della propria famiglia, dell’identità perduta e dello sradicamento tra fughe da guerre e integralismi. Passato a Locarno fuori concorso e tra i 21 film che si sono iscritti per la candidatura italiana all’Oscar …

Basir Ahang e Tihana Lazovic in “Sembra mio figlio”

Sembra mio figlio è un film di parole, con un poeta come interprete ed una storia vera da raccontare, universale ed eterna come la ricerca di una madre, della propria famiglia, dell’identità perduta e dello sradicamento tra fughe da guerre e integralismi.

Costanza Quatriglio porta a Locarno (fuori concorso) un nuova tessera del suo cinema caparbiamente in cerca di nuovi linguaggi, per narrare il presente dei dimenticati e le sue emergenze, a cui da sempre guarda con la sua macchina da presa compiendo una scelta di campo artistica e politica (Terramatta, Triangle, 87 ore).

Parte da lì, infatti, anche Sembra mio figlio, nuova incursione nel cinema di finzione, collegata al precedente Il mondo addosso, attraverso Jan, quel ragazzino afghano che in Italia ha trovato rifugio dall’orrore talebano e di cui la regista palermitana ha raccontato la storia – nel 2005 – insieme a quella di altri minori non accompagnati, sfuggiti ai conflitti e alla povertà.

“Forse un giorno incontrerò qualcuno che mi darà la possibilità di trovare la mia famiglia”, diceva Jan alla fine de Il mondo addosso. Quel giorno è arrivato, il ragazzino ha ritrovato suo madre e le lunghe telefonate per raccontarsi e raccontare – trascritte meticolosamente da Costanza – sono diventate il cuore di Sembra mio figlio.

Un film di parole, appunto (sceneggiato dalla stessa regista con Doriana Leondeff e Jan Azad). Dette in lingua hazaragi, lingua madre di Basir Ahang, poeta e giornalista afghano rifugiato in Italia da tanti anni (qui accanto una sua raccolta di poesie), sfuggito anche lui alle persecuzioni del suo popolo, gli Hazara, i creatori dei Buddha di Bamiyan, distrutti dalla follia talebana e simbolo di una cultura cancellata dalla storia, attraverso un genocidio perpetuo e dimenticato.

Dare voce a Basir è dare voce a un intero popolo. Eccolo dunque nei panni di Ismail, a raccontare la sua storia e quella del fratello Hassan (Dawood Yousefi, interprete e attivista per i diritti umani), entrambi riparati a Trieste, città cerniera dell’Europa, dove una piccola sartoria appena rilevata costituisce per loro l’unica traccia di futuro.

Il giorno che Ismail, però, ritroverà al telefono la madre, capirà che ripercorrere al contrario il cammino, fino in Afghanistan (le riprese sono state fatte in Iran) sarà il suo destino. E per il film l’atteso punto di svolta a cui, dopo piccoli svelamenti e piccoli colpi al cuore, si arriva con ritrovata emozione. E la certezza che il cinema di Costanza Quatriglio sia davvero dalla parte giusta.